giovedì 28 ottobre 2010

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YouStartUp chiede aiuto alla community!


Ciao ragazzi!

YouStartUp vi chiede un piccolo aiuto ;)


Purtroppo, solo ieri, questo blog è stato iscritto al "LIBERO Mobile Awards", nella categoria Web & Tech. Iniziando con forte ritardo rispetto agli altri partecipanti, siamo molto indietro...ma, con il vostro aiuto, possiamo ancora farcela!

Se questo blog vi piace, se vi è stato utile, se credete che meriti un piccolo riconoscimento..allora date il vostro "Mi piace/Like":




Vi ringrazio!

Inoltre, grazie alla piattaforma di Libero per Mobile, da ieri, questo blog è accessibile anche da mobile: http://youstartup.m.libero.it

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Grazie di cuore a tutti!

Stefano Passatordi

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domenica 24 ottobre 2010

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Investitore SI, investitore NO?

Nelle ultime settimane, la domanda più frequente che ho ricevuto è stata se conviene o meno cercare un investitore, oppure se conviene andare avanti da soli, con le proprie forze. Credo che sia impossibile rispondere in maniera categorica con un “SI, conviene” oppure “NO, non conviene”, dipende da tanti fattori.

Premesso che questo argomento è stato già affrontato, in parte, in questo post, di qualche mese fa, adesso cercheremo di capire i vantaggi e gli svantaggi di avere un investitore.

Grazie ad internet, oggi è possibile fondare una startup che offre un servizio online, senza avere costi eccessivi. Se i founder sono due tecnici, possono sviluppare la piattaforma da soli, un dominio costa (esagerando) 20 euro all’anno, aprire la società ha un costo variabile che va dalle 300 sterline circa per una LTD, ai 3000 dollari per aprire una INC negli USA (forse anche meno), fino ai circa 10.000 euro per una SRL in Italia (non tutti da versare subito) [in merito: post1 e post2].

Insomma, se non volete aprire subito una società, con meno di 100 euro potete far partire la vostra startup WEB! (In merito vi consiglio di leggere questo post su thestartup.eu)

Una volta sviluppato il servizio, iniziate a promuoverlo...e se piace: BOOM!

Milioni di utenti, da tutto il mondo, ogni giorno accedono al vostro servizio e lo promuovono. Pochi mesi dopo, una grossa realtà del web vi contatta perchè ha deciso di acquisirvi, per la modica cifra di 10M di dollari!!!! Dopo la due diligence, firmate il contratto e diventate, di colpo, ricchi, famosi e con un lavoro da manager in una azienda famosa a livello mondiale.
Eh si, perchè, se non lo sapevate, quando una società acquisisce la vostra, non vi da i soldi e vi saluta..ma, come minimo, vi bloccherà due anni per lavorare per loro, dentro la vostra stessa società, per trasmettere tutto il vostro know-how ai loro tecnici.

Questo è il caso ideale...credo che ve ne siate già resi conto!


E’ il caso in cui i founder fanno tutto da soli, lo fanno bene, velocemente e monetizzano subito la loro idea..senza grossi intoppi. Un altro possibile finale, oltre l’acquisizione, potrebbe essere che le vendite del vostro servizio (magari con modello freemium) vanno talmente bene che fatturate milioni di dollari, in poco tempo.

In entrambi i casi parliamo di casi ideali, molto difficili da realizzare...ma, comunque, non impossibili!

Vediamo, invece, un caso medio: i founder non sono tecnici, è la prima volta che affrontano l’esperienza startup e...non sanno neanche da dove iniziare :)
In un caso come questo, assimilabile a quello in cui i founder sono tecnici, il primo problema è sicuramente quello economico.

Avete una idea, ci credete, per realizzarla dovete lavorarci tutto il giorno e tutti i giorni...come vi mantenete?

In questo caso, le soluzioni sono sempre le stesse:
- La famiglia vi supporta
- Fate un altro lavoro e solo la sera ed il fine settimana potete dedicarvi alla vostra startup (tanti hanno fatto così e con successo)
- Trovate qualcuno che vi finanzia
- Altre soluzioni fantasiose

Questo è sicuramente il principale motivo per cui una startup si affida e chiede aiuto ad un investitore!

Anche io, con Ibrii, per i primi mesi mi sono affidato alla famiglia ma, successivamente, ho provato a cercare (ed ho trovato) un investitore, perchè volevo crescere più velocemente e avere maggiori garanzie anche per il futuro.

In genere, per un novizio, come lo ero io, oltre al denaro, serve anche un altro importante aiuto..l’esperienza!

Vi consiglio di non sottovalutare mai questo fattore, perchè vi accorgerete troppo tardi di aver fatto degli errori che vi possono costare tanto, solo perchè inesperti e alle prime armi. Se leggete il libro Founders at Work, vi renderete conto che la maggior parte dei founder che hanno avuto successo, hanno prima lavorato per anni in altre aziende, hanno imparato e, solo dopo, hanno provato a fondare la propria startup.

Per quello che è stata la mia esperienza, posso dirvi che lo scotto di essere inesperti, prima o poi, lo pagherete. Chi non paga il dazio esperienza è perchè ha già lavorato per anni in un ambiente simile, quindi ha imparato a non commettere certi errori.

Il fattore esperienza è sicuramente un altro motivo per cui è importante avere un investitore che sia esperto del vostro mercato/settore, oltre a uno o più advisor che hanno già vissuto il vostro percorso.

Che si tratti di un angel, di un seed investor o di un grosso VC, in tutti i casi si tratta di persone che affidano a voi i loro soldi..per cui, è nel loro interesse aiutarvi e consigliarvi al meglio.

Il vostro compito sarà, allora, capire quali consigli seguire e quali scartare!

Non è detto che siano sempre consigli corretti...ma, saper capire quali seguire e quali scartare, è una capacità che si acquisisce solo con l’esperienza :)

Quando avete una startup, un elemento fondamentale per la vostra crescita è il network, ovvero la rete di conoscenze, amicizie e rapporti lavorativi e di business che riuscite a creare. Più il vostro network sarà ampio, potente e differenziato e più possibilità avete di risolvere prima e meglio i vostri problemi e di arrivare dove vi siete prefissi in partenza.

Questo è un altro ruolo importante dell’investitore, spesso un ruolo messo in secondo piano...erroneamente.

Oltre a darvi soldi e consigli, il vostro investitore, dovrebbe aiutarvi ad ampliare il vostro network e ad introdurvi alle persone giuste al momento giusto. Credo che, prima di scegliere un investitore piuttosto che un altro, sia giusto informarsi quale potrà esservi più utile dal punto di vista del networking...insomma, quale è quello più “agganciato”??

In base alla mia esperienza, questi sono i motivi principali per cui una startup potrebbe decidere di affidarsi ad un investitore:

- Soldi
- Esperienza/consigli
- Network

Ovviamente, però, tutto ha un prezzo! Un investitore non è il buon samaritano, anche lui è una persona che vive di business e se decide di investire nella vostra idea è perchè ci vede delle potenzialità nel futuro...ovvero, domani potrà recuperare N volte il suo investimento inziale (almeno questa è la speranza)!

Per cui, quando decidete di far entrare un investitore nella vostra società, è vero che all’improvviso il conto in banca aumenta..ma è anche vero che perdete, non solo quote della società (dipende da come viene fatto l’investimento, ma, in ogni caso, se le cose vanno bene, prima o dopo dovrete cedere delle azioni), ma anche potere decisionale.

Dopo aver firmato il contratto di investimento, non sarete più solo voi founder a decidere le sorti della startup, ma anche il vostro investitore avrà voce in capitolo.
Quindi, prendere dei finanziamenti da un lato aumenta le vostre possibilità di successo ma, dall’altro, vi priva della libertà decisionale.

Per mitigare questo effetto “collaterale”, vi consiglio, prima di tutto, di capire bene chi è il vostro investitore (è una persona con cui si può discutere oppure è un “dittatore”?), di fare molta attenzione a quello che firmate (term sheet e contratto di investimento, opppure convertible note), di negoziare sempre (non dite mai sempre “SI”, solo perchè loro vi danno i soldi), di dimostrare con le parole e con i fatti che voi siete gli imprenditori e che siete in grado di gestire le sorti della VOSTRA startup.

Insomma, fatevi rispettare sin dal primo giorno!

In genere, dopo aver trovato un accordo, il rapporto founder – investitore/i dovrebbe essere un rapporto disteso, di collaborazione e di sforzi comuni. In fondo, entrambi avete lo stesso obiettivo: guadagnare tanto con la vostra idea!

Ad oggi, posso tranquillamente affermare che in Gianluca Dettori e in tutto il gruppo di dPixel, ho trovato quella complicità e quel rispetto reciproco che servono per portare avanti, in tranquillità, la propria startup.

Spero di avervi dato un quadro completo sulla questione “investitore SI, investitore NO”.

Prima di prendere qualsiasi decisione affrettata, riflettete per capire se avete tutte le carte per giocare da soli la partita o se vi serve un alleato!

A presto, Stefano Passatordi
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lunedì 18 ottobre 2010

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Imparare dall’esperienza: 10 errori da non commettere (di nuovo)

Soprattutto in queste ultime settimane, c’è un gran discutere circa la possibilità di replicare l’ambiente Silicon Valley in Italia. Ritengo che uno dei fattori che ha reso la Silicon Valley il posto più ambito dalle startup sia il networking.

In Italia, in base alla mia personale esperienza, posso affermare che con il termine ‘networking’ si intende: incontrare e conoscere nuove persone, scambiarsi i biglietti da visita e, in casi rari, si arriva addirittura a parlare di collaborazioni. Nelle poche settimane passate nella Bay Area, ho notato un approccio abbastanza diverso rispetto all’Italia. Il networking non è solo incontro e scambio di biglietti da visita, ma anche scambio di esperienze.

Quando parlo di esperienze, mi riferisco per lo più agli errori commessi e ai fallimenti. In più eventi, ho incontrato ragazzi che si sono presentati dicendomi che avevano una startup, ma era fallita e stavano cercando la giusta ispirazione per ricominciare. Spesso, la discussione continuava circa gli errori commessi con la precedente startup e quali fossero le lezioni imparate nei mesi da startupper.

Seguendo questa logica, vi parlerò, senza “vergogna”, delle lezioni che io ho imparato, sia sulla mia pelle e sia osservando il mondo che mi ha circondato, a quasi un anno dalla nascita di Ibrii.

Quando inziate l’avventura “startup”, dovete essere eccitati, su di giri, felicissimi e sognatori. Guai ad iniziare già pensando di non potercela fare, bisogna puntare in alto, voi sarete la nuova Google!
Esattamente con questo stato d’animo ho iniziato la mia avventura con Ibrii: farò la nuova Google, diventerò ricco e famoso, finirò sulla copertina di Forbes!
Sognare non costa nulla, inoltre ti conferisce quelle energie e quella voglia che servono quando lavoro e sacrificio vanno di pari passo. Dovete fare molta attenzione a questo stato di super eccitamento!
Se da un lato vi aiuta ad andare avanti per superare tutti i momenti difficili che possono capitare, dall’altro vi porta ad una visione distorta della realtà. Quando bisogna lavorare per rendere una idea un prodotto finito e, successivamente, farlo diventare un trend del mercato, non servono i sogni, ma analisi razionali e precise.

Lezione 1:
va benissimo sognare ad occhi aperti, ma attenzione, ci sono molte situazioni in cui servono ragione e concretezza..non sogni.

Spesso, sognare troppo porta ad uno stato di autoconvicimento che tutto va benissimo e che voi siete padroni della situazione. Di conseguenza, non ascoltate più i consigli degli altri (o peggio, siete convinti che voi ormai avete tutta l’esperienza necessaria!)...perchè voi siete troppo bravi!!!

Lezione 2: essere sicuri di se stessi è un prerequisito importante e fondamentale, convincersi di essere già esperti di tutto è un grave errore. Ascoltate i consigli di tutti e sappiate filtrare quelli validi.

Abbiamo sempre detto che il punto di forza di ogni startup è il team. Se sbagliate quello..avete sbagliato tutto!
Fate molta attenzione quando scegliete chi fonderà con voi la startup e chi entrerà a farne parte in futuro. Non fatevi guidare da facili emozioni verso amici o parenti. Anche in questo caso usate la ragione, siate freddi, dovete capire se la persona che volete con voi ha gli stessi vostri obiettivi, se è determinato quanto voi e se, anche sotto pressione, riuscite ad andare d’accordo.

Lezione 3: un team affiatato spesso è composto da amici, ma il team vincente si vede nel lungo termine, quando passa indenne tutte le bufere che vi portano al successo.

I prodotti/servizi di successo sono quelli che risolvono un problema all’utente, che gli rendono la vita più semplice. Se riuscite a sviluppare un prodotto/servizio che diventa “indispensabile” allora avete fatto centro! Quasi sempre, un buon prodotto di successo ha un focus ultra definito, ovvero, fa una sola cosa, ma la fa molto bene.

Lezione 4: non pensate di implementare 1000 features nel vostro servizio/prodotto, ne basta solo una, ma pensata bene ed eseguita magistralmente. Le idee migliori sono sempre quelle più semplici.

Un aspetto di fondamentale importanza, ma spesso ritenuto secondario, è il messaggio o tag line che dovrebbe essere la prima frase che l’utente vede quando approda nella vostra home. In poche parole e/o immagini, dovete essere in grado di far capire all’utente cosa gli offrite e che valore aggiunto gli potete offrire. Se sbagliate il messaggio, tutto il lavoro fatto sarà inutile..l’utente non perderà tempo ad usare il vostro “giocattolo”.

Lezione 5: non basta spiegare all’utente cosa gli state offrendo, dovete anche fargli capire che vantaggi avrà usando il vostro servizio/prodotto. Il messaggio sembra un aspetto semplice e banale, ma, vi assicuro, vi giocate una grossa fetta dei potenziali utenti se non è pensato nel migliore dei modi.

L’usabilità viaggia insieme al messaggio. Avere un servizio/prodotto super potente è inutile se non è facilmente e velocemente gestibile. Potreste perdere giornate ad implementare funzionalità stellari, ma se non spiegate agli utenti che ci sono e come vanno usate, allora tutto quel lavoro è perso.

Lezione 6: ognuno deve svolgere il proprio mestiere, rivolgetevi ad un esperto di usabilità quando progettate la UI del vostro servizio/prodotto. Anche su questo aspetto, vi giocate grosse fette di utenti.

Ascoltate sempre i consigli, soprattutto quelli degli utenti. Saranno gli utenti a decretare il successo o meno della vostra startup, non potete pensare di non dare ascolto alle loro voci. Inoltre, spesso, gli utenti hanno un punto di vista diverso dal vostro, possono davvero consigliare modifiche e/o aggiunte che possono fare la differenza.

Lezione 7: inserite ovunque un link al modulo del feedback, in questo modo un utente può farvi sapere cosa pensa di voi, consigli e critiche. Fate attenzione, però, a valutare quali consigli possono essere seguiti e quali vanno scartati, perchè, a volte, sono troppo diversi dal vostro focus di servizio/prodotto.

Ricordate sempre che nel mondo di internet e della tecnologia, tutto viaggia a velocità assurde. Dovete sempre partire dal presupposto che, nello stesso istante in cui voi pensate qualcosa, almeno altre 5 persone nel mondo hanno già pensato lo stesso, o lo stanno per fare. Mettete a fuoco la vostra idea e lavorate sodo per renderla un servizio/prodotto concreto il prima possibile.

Lezione 8: non importa quanto sia geniale ed unica la vostra idea, sicuramente qualcuno è già più avanti di voi. Pensate, sviluppate e mettete in produzione nel minor tempo possibile, adottate un processo di sviluppo agile, veloce, mirato ed iterativo (lean).

Se ci pensate, tutte le più famose startup che adesso sono delle vere e proprie aziende, hanno lanciato servizi/prodotti innovativi rispetto allo stato dell’arte delle cose. Hanno introdotto nuovi concetti, come il microblogging (vedi Twitter) o hanno migliorato meccanismi già esistenti (vedi Facebook). In pratica, le startup che hanno avuto successo hanno creato qualcosa di nuovo o hanno migliorato quello che già esisteva.

Lezione 9: non perdete tempo a sviluppare qualcosa che già esiste. Cercate di essere originali ed innovativi per creare qualcosa di nuovo, se puntate a tipologie di servizi/prodotti già esistenti, sforzatevi di trovare il valore aggiunto che vi farà avere successo.

Spesso mi sono chiesto quando è possibile definire una startup fallita. E’ fallita quando non ci sono più soldi in cassa? E’ fallita perchè perde utenti? E’ fallita quando riceve tanti feedback negativi? Secondo me, una startup fallisce solo quando lo decidono i founders.

Lezione 10: Anche se le cose non vanno bene, anche se tutto sembra andare nel peggiore dei modi e la strada si fa ancora più in salita, non mollate mai se dentro di voi sentite che avete ancora tanto da dare e raccontare. Se scappate alle prime difficoltà è segno che forse è meglio cambiare mestiere. Concedetemi una espressione “volgare”, ma che rende bene l’idea: “Ragazzi, se avete gli attributi..dimostratelo e non mollate!MAI!”

Queste sono 10 piccole lezioni che ho imparato sulla mia pelle e osservando i miei colleghi, spero vi possano essere utili.

Stefano Passatordi
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sabato 9 ottobre 2010

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Business Plan: esperienza di un founder


Questo articolo nasce da una discussione nata su Facebook intorno all'argomento "Business Plan".

Chi scrive è Andrea Giannangelo e sta avviando una startup di nome iubenda; studia Economia e Marketing all'Università di Bologna ed è Web Designer da diec'anni.

In primo luogo intendo precisare che quanto leggerete riflette nient'altro che la mia esperienza, unita al punto di vista, tratto da ciò che sono e dalle convinzioni che mi muovono.
Non amo ch'impartisce lezioni senza il sostegno dei fatti e voglio sia ben chiaro l'approccio umile di chi sente fra le mani poco più che un pugno di mosche. Evito di scrivere "io credo che" in cima ad ogni frase.
Infondete voi stessi quanto segue con questo spirito, puramente soggettivo. Questo articolo descrive il modo in cui, a 21 anni, ho scritto il Business Plan di Iubenda (la startup che sto fondando) e tutti gli insegnamenti che ho tratto da questa attività.
Mi auguro che queste parole interessino chiunque debba affrontare la scrittura di un Business Plan (o di altri documenti sulla propria idea), oppure intenda interrogarsi sull'utilità di questo compito.
Specie chi si trovi a quello stadio in cui l'infante è nel pancione dei fondatori, dall'aspetto informe ed immerso ben oltre la testa in un viscoso liquido amniotico.

Vorrei spazzare via da questa discussione ogni preconcetto o barriera mentale.

Finiamola con l'abitudine di considerare "business" e "product" come due "visioni", e per giunta visioni contrapposte. Business-view e product-view devono coesistere e sono l'una indispensabile all'altra.

Per quale sia il background di appartenenza o il sostrato iniziale, prodotto e business rivestono un ruolo fondamentale ad ogni stadio e vanno curati in modo parallelo.
Il mio background è sia tecnico che economico (e vorrei dire anche umanistico, visti miei studi ed interessi): forse sono la persona giusta per sanare questa frattura.

Quando ci si trova agli stadi iniziali di un progetto di Startup, il prodotto ha per natura un ruolo dominante. Ho tuttavia sperimentato su me stesso come scavare nei dettagli della mia idea, sondarla ad uno sguardo attento e spendere ore ed ore, a scrivere pagine e pagine, sia d'enorme aiuto.

Scrivere un Business Plan è un'attività molto più semplice di quanto si creda.

Spesso lo si vede come una sorta di mostro dalle fattezze non ben definite, persino come un essere odioso.

Non si tratta d'altro, in realtà, che d'approfondimento del più simpatico Pitch, suo fratello minore. Parafrasando la struttura di realizzazione di un Business Plan proposta da Wikipedia, provo ad definire uno scheletro:

- Idea (Problema -> Soluzione/Prodotto);

- Team;

- Mercato, Concorrenza, analisi SWOT (Punti di forza, punti di debolezza, opportunità, minacce), Distribuzione.

- Piano di Marketing. Ossia: come raggiungi i clienti? Advertising, Viralità, uno ad uno, amici e parenti o quello che sia.

- Use of Proceeds (quanto denaro ti serve e come intendi utilizzarlo).

- Revenues: come intendi guadagnare (modello di business, pricing etc) e quanto programmi di guadagnare (dato ad alto contenuto di creatività).

- Altre indicazioni finanziarie (eventuali investitori coinvolti o altre fonti di finanziamento individuate).

- Conto Economico e Stato Patrimoniale (su 3 o 5 anni).

Quanto, tutto ciò, è distante dalle componenti fondamentali di un Pitch? Poco o nulla, dico io.

Nonostante ciò, tutti amano la formula del Pitch, ma molti sono i detrattori del Business Plan.
Scavare nei dettagli del proprio progetto consente di comprendere molti aspetti che non si erano prima considerati, oppure di scoprirne di nuovi.
Di analizzarli con approccio sistematico e per questo di assicurarsi che nulla sfugga. Qualcosa mi dice che le parti finanziaria e di bilancio siano quanto fa inorridire tutti i product-men, toglie loro il sonno, li spinge a maledire santi e diavoli.

Di seguito vi racconto qual è stata la mia maniera di affrontare l'ostacolo.
Ecco come ho elaborato una previsione su numero di vendite e ricavi:

1. Distribuire un sondaggio (tramite Surveymonkey) per sondare la Willingness To Pay (WTP, Disponibilità a pagare); in questo modo ho potuto capire quale fosse l'interesse verso il mio prodotto (un generatore di privacy policy per siti web), ho potuto capire quanto i potenziali clienti, almeno idealmente, sarebbero stati disposti a sborsare per esso. Sondare la Willingness To Pay non è semplice, a causa degli effetti distorsivi (di ancoraggio) che il questionario può indurre. Dopo alcune ricerche, ho deciso di adottare un metodo chiamato "billing game", declinato nella sua forma discendente, che prevede di proporre in domande successive se l'intervistato sia disposto a pagare una cifra stabilita (es. 20 Euro). Se l'intervistato risponde di no, gli viene proposta una cifra più bassa nella domanda successiva, e così via.

2. Raccogliere informazioni sul modello di business che ho scelto di adottare (Freemium), da cui ho anche scritto un enciclopedico articolo , cercando metriche di conversione e modelli di Pricing in uso.

3. Operare alcune scelte riguardanti i piani d'offerta, decidendo quanto far pagare per ogni set di features.

4. Incrociare i dati raccolti sul modello di business e le decisioni riguardo l'offerta in un foglio di calcolo, impostando come variabili queste dimensioni: il numero di adottanti free, il tasso di conversione relativo ad ogni piano (ancorato ai dati di mercato raccolti), il prezzo di ogni piano.

5. Cercare di prevedere dei tassi di crescita, dividendo la previsione in periodi. Ho immaginato un leggero bump (aka "botto") iniziale, poi un periodo di crescita lenta, uno di crescita sostenuta, dunque di nuovo crescita lenta. In sostanza, ho elaborato un moltiplicatore di crescita per ogni trimestre, da applicare al trimestre precedente. L'andamento della crescita negli adottanti proposto è molto comune ed universalmente accettato; per info potete leggere qui.

6. Infine, dare tutto ciò in pasto al foglio di calcolo. N'è venuta fuori una previsione accettabile di vendite e ricavi.
Ora viene la parte di bilancio (conto economico e stato patrimoniale). Devo dire che per questo serve davvero della competenza specifica, ma si può rimediare. Ecco come: www.pdfor.it.
Pdfor vi consente di generare Conto Economico, Stato Patrimoniale ed indici di bilancio senza saper nulla di contabilità. Tutto ciò che serve è aver elaborato una stima dei ricavi (sopra ho proposto un metodo) ed una dei costi (lo Use of Proceeds, immancabile in ogni Pitch che si rispetti).

Per quanto riguarda l'opportunità che il Business Plan sia il documento iniziale richiesto dagli investitori, sorgono parecchi dubbi che io condivido.
Partire dal Pitch è importante, poiché questo strumento permette modifiche veloci grazie alla sua struttura snella ed evita ancoraggi od effetti di framing ulteriori. Vedo il Business Plan come un'evoluzione del Pitch stesso, un suo approfondimento.

Parlando di questioni concrete, negli ultimi mesi ho preso contatti sia con dPixel che con Annapurna Ventures (due dei pochi operatori di Venture Capital italiani di tipo Early Stage focalizzati sul web). Nessuno di questi due interlocutori mi ha domandato un Business Plan per il primo incontro, che si è invece svolto in modo del tutto informale.

Mind The Bridge offre da quest'anno uno spazio dedicato alle Idee di Business (denominato per l'appunto "Call For Ideas"), parallelo alla Business Plan competition. Per accedere a questo spazio è sufficiente inviare un Executive Summary.

Ciò che ho riscontrato è l'opinione diffusa che il Business Plan non sia necessario quando i tempi sono ancora giovani ed il progetto necessita di nient'altro che definizione e labor limae.
Molti obiettano come queste previsioni siano inutili, poiché avulse dalla realtà, inconsistenti; creative, nella migliore delle ipotesi.

Tutto ciò è vero, ma ininfluente se si considera un fatto: nessuno si aspetta che queste previsioni si realizzino, nessuno. Ed allora perché queste previsioni sono importanti ed utili? Perché consentono di concentrarsi sulla realtà dei numeri e sulla loro spietatezza. Ci costringono a considerare sul serio quanti dovranno essere i nostri clienti e quale il prezzo da essi pagato.

La previsione è l'unico sistema per conoscere in anticipo quali numeri il nostro prodotto dovrà muovere per sopravvivere, quali dovranno essere prezzi e tassi di conversione. L'alternativa è navigare a vista.

Nello specifico della mia esperienza, scrivere documentazione sul progetto mi ha aiutato enormemente in queste direzioni:

- Comprendere i miei clienti ed il mercato di riferimento, capirne la struttura decisionale e di spesa, nonché abitudini, interessi, attitudini.

- Scavare nella concorrenza, scoprendone rigidità e punti di debolezza, così come punti di forza e caratteristiche distintive.

- Esplorare il modello di business ed indagarne i casi d'uso.

- Individuare le caratteristiche chiave del prodotto e le dimensioni su cui fare leva.

- Comprendere appieno la difficoltà delle sfide da affrontare e la pericolosità delle minacce, così come la concretezza delle opportunità.

- Scoprire le criticità del modello Freemium, come l'onere di assistenza dei clienti free.

- Invitarmi a raccogliere ulteriori dati sul mercato di riferimento.

- Indurmi a definire il confine delle attività "core", da considerare cruciali per la riuscita del progetto e su cui concentrare lo sviluppo del know how.

Ma più di tutto ciò, guidare l'entusiasmo. Poiché l'entusiasmo può essere un'emozione potente quanto pericolosa, foriera d'agire impulsivo. Ma soprattutto l'entusiasmo rischia in ogni momento d'indebolirsi o venir meno.

Ciò ch'è importante è la determinazione, e la determinazione non può che vivere di approccio sistematico. Una determinazione ricca di passione. E di coinvolgimento.


Questi sono i pensieri di Andrea, circa la questione Business Plan. E voi cosa ne pensate?



Ciao a tutti,
Stefano Passatordi



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giovedì 7 ottobre 2010

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Fundraising: Convertible note

Grazie al viaggio nella Valley, ho potuto capire quali sono le “ultime” (..si fa per dire, esistono da almeno 3 anni!) tendenze dei grossi angels californiani.
Quando una startup riesce ad ottenere un finanziamento da un angel, non viene più utilizzato il classico “contratto di investimento” (investment agreement), ma vengono usate le convertible notes.

In questo post, cercheremo di capire cosa è una convertible note e perchè sta diventando uno standard per le startup.

Prima di tutto va precisato che le convertible notes vengono usate nel caso di una startup che è al suo primo o secondo seed round o bridge financing. Non avrebbero molto senso per società che puntano a series B e oltre, vedremo il motivo in seguito.

Attualmente, in Italia, se ottieni un seed vuol dire che, insieme con l’investitore, avete deciso la valutazione della società (pre-money), avete fissato quindi il prezzo per share e, di conseguenza, la percentuale di equity di cui l’investitore si appropria, a fronte del suo investimento. Tutta questa procedura può essere lunga, costosa e, a lungo termine, potrebbe causare seri problemi quando si cerca il primo series A.

Per rendere il processo più veloce e semplice, vengono usate le convertible notes.
In pratica, l’investitore ti da il finanziamento sotto forma di prestito alla società, con la possibilità, in caso di series A, di convertire il prestito in equity.

Dal punto di vista dell’investitore è un credito nei confronti della startup. Dal punto di vista della società, la convertible note è un debito.
Questo è il concetto di base, ovviamente ci sono delle condizioni per regolamentare la convertible note.

Se pensiamo alla condizione e alle prospettive di una startup, in particolare WEB, possiamo capire a fondo il senso delle convertible notes. Una startup (web) ha due sole possibilità: avere successo o fallire. In generale, non esistono vie di mezzo. Per cui, l’investitore che scommette un seed nella vostra startup, avrà solo due possibilità: guadagnare o perdere tutti i soldi.
Sia per voi che per l’investitore, il successo si ha quando si inizia a parlare di series A.
Se non si riesce ad arrivare a quel punto entro un certo tempo, purtroppo, si può iniziare a parlare di fallimento. Ovviamente, questo è il caso generale, ma non è sempre così, basti pensare alle startup che si autosostengono con il loro business model.

Quindi, se il successo si inizia ad avere col series A, che senso ha perdere tempo e denaro (tutto l’iter per cedere equity in cambio di un seed è un procedimento lungo e costoso!), frammentando inutilmente la società, prima di raggiungere un round importante?..questa è esattamente la filosofia alla base dell’utilizzo delle convertible notes per le early stage startup.
Infatti, in questi casi, si parla di “bridge”. Proprio perchè l’investimento (seed) serve alla startup per maturare quanto basta e provare a chiedere un series A.

A questo punto, dovrebbe essere chiaro il concetto di convertible note e perchè si usa. Vediamo adesso i vantaggi e gli svantaggi.

Dal punto di vista dei founders, le convertible notes rappresentano più un vantaggio che uno svantaggio. A patto che si raggiunga il series A in un anno al massimo. Si può ottenere un finanziamento, spendendo il minimo e in poco tempo. L’iter burocratico è corto, veloce e poco dispendioso. Inoltre, non bisogna cedere subito equity della società. Però, bisogna ricordarsi che, a tutti gli effetti, una convertible note è un debito. In quanto tale, va inserito sotto la voce “debiti” del vostro bilancio.
Se fallite, i vostri investitori sono dei creditori e devono essere ripagati tramite gli asset societari.

Dal punto di vista di un investitore, la situazione è più complicata, ma potenzialmente più remunerativa rispetto alle “classiche” equity. Chi investe parte dal presupposto che il series A arriverà subito, nel giro di un anno al massimo. Il vantaggio per l’investitore sta nel fatto che, in caso di series A, lui potrà convertire le sue notes (ovvero il suo credito) in equity della società, alle stesse condizioni dell’investitore che porta il series A. Generalmente, per l’investitore, le condizioni del series A sono migliori rispetto al seed.
Inoltre, per far valere il suo investimento, avvenuto in tempi molto più “rischiosi”, il possessore delle convertible notes potrebbe aver diritto ad uno sconto (in genere, va dal 20% al 30%) sull’acquisto delle nuove shares della società che sta per chiudere il series A.
Se questo non dovesse bastare per proteggere il suo investimento, il possessore delle convertible notes ha il diritto di fissare una valutazione massima per il calcolo della conversione da notes a shares, sempre in caso di series A.
Questo è necessario per difendersi da una valutazione della società troppo elevata, che rischierebbe di annullare lo sconto che l’investitore del seed avrebbe sulle shares, durante il series A. Questa operazione viene chiamata “cap”.
E’ importante precisare che se viene fissato un cap, ovvero un tetto massimo per la valutazione usata durante la conversione da note a shares, non stiamo parlando della valutazione dell’intera società al momento del series A. E’ una valutazione fissata in anticipo ed usata solo per la conversione da note a shares dell’investitore che ha fatto il seed inziale.

Un ulteriore strumento a favore dell’investitore, sono le warrant coverage, ovvero una specie di stock option sul prossimo round. Se una note di $100k prevede una warrant del 20%, allora il possessore della note stessa ha diritto di comprare $20k di shares al prezzo dell’ultimo round (il prezzo può anche essere fissato all’inizio della note) e può effettuare questa conversione quando vuole lui, entro il limite di vita della warrant.
Le warrant, infatti, hanno un tempo di vita che va dai 3 ai 5 anni.

Per i founders sono preferibili warrant con una alta percentuale, ma con un tempo di vita basso. Al contrario, un investitore punta a basse warrant, ma con un tempo di vita superiore, per poter scegliere il tempo migliore per convertire in shares.

Come tutti i contratti, è possibile aggiungere clausole in base alle esigenze.

In questo caso, però, a vantaggio dell’investitore. Ad esempio, essendo la note un prestito, può essere soggetta ad interessi. Range standard sono 6% - 10% sulla durata della note.

In genere una note dura 12/18 mesi al massimo.

Se alla fine di questo periodo, la note non viene convertita in shares perchè non c’è stato il series A, allora si può convertire in common ad una valutazione fissata inzialmente (potrebbe essere la stessa della cap).

In genere, la durata della note viene decisa dai founders insieme con l’investitore, in base al tempo stimato per raggiungere un series A.

Queste sono le nozioni più importanti riguardo le convertible notes, adesso decidete come fare il prossimo seed round!

Ciao a tutti,
Stefano Passatordi
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Italia, investitori e startup

[Da: http://blog.tagliaerbe.com/2010/10/italia-investitori-startup.html]

In queste ultime settimane, nei blog dedicati al mondo startup e tecnologico, c’è stato un gran discutere circa la questione “fare la propria startup in Italia oppure andare in Silicon Valley”.

Il polverone è stato alzato da Augusto Marietti, co-founder di Mashape, che attualmente si trova con Marco e Michele (gli altri due co-founder) a San Francisco, nel mitico Pier 38.

In brevissimo, i tre giovanissimi founder sostengono che, dopo aver provato inutilmente a cercare dei finanziamenti in Italia, sono andati nella Valley ed hanno ottenuto quello che cercavano. Anche se con dispiacere, Augusto consiglia a tutti i giovani come lui e con idee innovative, di scappare dall’Italia perchè altrimenti le speranze di aver successo sono minime.

Queste affermazioni hanno scatenato un dibattito virtuale molto acceso, in particolar modo di Massimo Ciociola, seguito, in ordine temporale, da Stefano Bernardi e da Gianluca Dettori.

Fino ad oggi, ho letto in maniera passiva i vari post e commenti sui blog, senza mai intervenire in alcun modo, perchè, non avendo mai respirato l’atmosfera della Valley, non avevo alcun metodo di paragone per poter giudicare chi avesse ragione e chi no.

Prima di esprimere la mia opinione in merito, mi presento. Sono Stefano Passatordi e sono il co-founder di Ibrii, un servizio per la condivisione in tempo reale di contenuti web. Ibrii è nata nel novembre 2009 ed è stata, sin da subito, incorporata in Delaware. Per cui, a tutti gli effetti, è una società americana. In realtà, però, lo sviluppo e la gestione della società stessa avvengono a Roma. Tutto ciò è stato possibile grazie ad un seed ottenuto da dPixel.
Se vi state chiedendo perchè la società è stata registrata in Delaware, la risposta è semplice: “il nostro obiettivo è sempre stato quello di ottenere finanziamenti da investitori USA”.
Da novembre 2009 ad oggi, sono cambiate tante cose, sicuramente la più rilevante, ai fini della discussione, è che Lorenzo Thione è entrato a far parte della società già da molti mesi.

Grazie proprio ad Ibrii, ho avuto l’occasione di andare a San Francisco e nella Silicon Valley per qualche settimana.

Adesso, sento di poter esprimere il mio parere in merito, in quanto, non solo ho potuto constatare personalmente di cosa stiamo parlando, ma, soprattutto, incarno il prototipo dello startupper che è di base in Italia e cerca di far crescere la sua startup.

L’impressione che ho avuto leggendo i vari post delle settimane scorse, in merito a questa faccenda, è che si stia facendo confusione. Credo che sia fondamentale capire bene di cosa stiamo parlando: si parla di startup WEB e non di startup che producono macchine a idrogeno!

Questo, secondo me, è il punto principale da chiarire. Altrimenti, sarebbe sbagliato dire che in Italia è difficilissimo fare impresa e che non è possibile avviare una startup, mentre negli USA tutto è possibile. In Italia esistono tante aziende, in vari settori, che sono diventate famose nel mondo e che esportano la nostra cultura e che meritano il massimo rispetto.

Invece, secondo me, il discorso cambia quando si parla di fare l’imprenditore web. Raccontandovi la mia esperienza, cercherò di fare i paragoni tra quello che ho vissuto e vivo tutt’ora in Italia e quello che ho percepito nella Bay Area. Alla fine tirerò le somme di tutto il discorso.

Partiamo dal fundraising. (Va precisato che stiamo parlando di un seed, non di un series A!) In questi mesi, stiamo effettuando un secondo fundraising e abbiamo approcciato sia investitori italiani che della Valley. In Italia, SOLO PER RACCONTARE LA NOSTRA IDEA, TUTTI hanno chiesto tre cose: pitch, business plan e financials. A San Francisco, così come nella Valley, hanno voluto soltanto una demo..ovvero: “accendi il PC e fammi vedere di cosa stiamo parlando”.

Credo che le differenze siano ovvie, in Italia si pensa prima ai numeri e alle carte, mentre nella Valley il prodotto viene prima di tutto.
Con questo non voglio dire che business plan e financials non servono. Assolutamente NON è così. Però bisogna dargli il giusto peso in base allo stato attuale della startup e dei finanziamenti che si chiedono.
Un discorso è allenarsi a progettare e pianificare durante la fase di inizio. Un altro discorso è che, senza questa documentazione (deve essere almeno credibile, non improvvisata), non hai neanche la possibilità di raccontare la tua idea. Scusate, ma a me sembra una bella differenza!
Sicuramente, andando avanti con le trattative e con l’avanzare della startup verso uno stadio più maturo, il business plan diventa uno strumento fondamentale anche nella Valley.
Nessuno può immaginare di chiedere dei finanziamenti importanti, in Italia o all’estero, senza un business plan definito.
Forse vi potete salvare se trovate un angel e gli chiedete poche migliaia di dollari/euro.
(Circa questa questione, Dettori e dPixel sono stati gli unici ad ascoltarci e a credere in noi SENZA presentare un business plan sin dal primo giorno).

In Italia, il fatto che io ed mio il socio abbiamo un background tecnico (siamo due laureati magistrali in Informatica a Pisa) è sempre stato un punto a nostro sfavore.
Poichè siamo tecnici e, secondo gli investitori, sicuramente non capiamo nulla di prodotto e numeri..allora non possiamo aspirare a seed più corposi. Fiducia limitata! Se guardate la storia di tutte le più famose startup, vi renderete conto che sono quasi tutti tecnici.
In California, infatti, è stato esattamente il contrario. Essere due laureati in informatica è stato un ottimo biglietto da visita. All’inizio non sono i numeri che servono, ma il prodotto (ovvero servono tecnici)!
Senza quello, alla fase numeri non ci si arriva mai.

In questi ultimi mesi, stando comodomante a Roma, abbiamo stretto una partnership con una società che si trova a Sunnyvale, California. Tutto iniziato e portato avanti tramite Skype e email. In Italia, nonostante fossimo andati di persona nelle sedi di piccole, medie e grosse realtà con cui potevamo collaborare, abbiamo ottenuto solo tante false promesse, abbiamo perso tempo e risorse finanziarie.

Durante le settimane in Valley, siamo riusciti ad avere una media di 2 incontri al giorno con i più grossi angels della California, oltre a famosi blogger e affermati entrepreneurs.
Premetto che non li conoscevamo già da prima, ma, molto semplicemente, i contatti sono avvenuti tramite email oppure tramite Lorenzo.
In Italia, gli investitori li devi inseguire per settimane..

Un’altra importante differenza che ho riscontrato, riguarda i contratti di investimento per i seed. Durante gli incontri con i vari angel della Bay Area, tutti ci hanno parlato di convertible notes e di contratti lunghi una pagina, molto laschi.
Perchè la filosofia della Valley è questa: una startup potrà essere o ZERO o UNO. Se un giorno varrà UNO allora convertono in equity ed assegnano una valutazione, contestualmente all’interesse di un VC.
In Italia, invece, già il primo contratto di investimento (per un seed) è lungo oltre 15 pagine e contiene clausole da series A. Senza parlare della valutazione che viene assegnata inizialmente e che, nella maggior parte dei casi, limita la startup anche per i round futuri.

Concludendo, credo che sia sbagliato asserire che in Italia è impossibile fare impresa e che, per forza, bisogna andare fuori dal paese. Condivido in parte le affermazioni di Ciociola e Dettori, ma allo stesso tempo capisco Augusto Marietti.
Va benissimo cercare di restare in Italia per far crescere il paese e contribuire a renderlo un posto migliore per le future generazioni.
Va benissimo dire che, spesso, non dipende dall’Italia, ma dalla NON bravura dell’imprenditore e che ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, senza fuggire.
Però, bisogna anche essere onesti e raccontare i fatti per quello che sono attualmente in Italia. Per cercare di replicare l’ambiente che si trova nella Valley, serve uno sforzo da parte di tutti: imprenditori, investitori, università, politiche economiche, il sistema paese.

Negli ultimi 3 anni, in Italia le cose sono cambiate molto riguardo la questione startup ed investitori. Oggi, a differenza di prima, se un giovane ha una idea ha più di qualche porta a cui bussare.
Quindi, se da un lato ci sono stati dei passi in avanti e continuano ad esserci, dall’altro, però, c’è ancora tanto lavoro da fare.

Dal mio punto di vista, ecco alcuni consigli per migliorare:

- Investitori: evitare di ingessare le startup con basse valutazione per potersi prendere una percentuale di equity sempre più alta. Questa tecnica porta solo a svalutare la startup e diventa un deterrente per un grosso VC. Ricordarsi sempre che fare il venture capital è una attività che intrinsecamente vive di rischio, non potete cercare garanzie che nessuno può darvi.

- Imprenditori: cercare di portare avanti la propria idea anche senza grossi capitali iniziali, questo discorso vale soprattutto per le startup web. Ci sono startup che con meno di 20k euro di investimento iniziale ci sono riuscite (leggetevi Founders at Work). Pensare a creare un network collaborativo piuttosto che lucrativo. Ad un evento a San Francisco, un giovane startupper mi ha detto che quando incontra un altro entrepeneur come lui, non pensa a come quella persona possa aiutarlo, ma pensa a come lui possa aiutare quella persona. Capite la differenza? Basta con le invidie e con la guerra tra poveri.

- Università: le università sono il vero valore aggiunto della Silicon Valley, secondo me. Formano le menti imprenditoriali dei giovani studenti fin dai primi anni. Ad esempio, Stanford e Berkeley hanno almeno un corso all’anno su cosa significhi fare l’entrepeneur e come si fa.

Secondo me, un errore comune di tutti è quello di non capire da subito che, grazie ad internet, tutte le startup (web) sono sul mercato globale. Che tu stia in Italia, in Cina, in Russia o in America, devi sempre ricordare che il tuo mercato è globale.

Questo vuol dire che l’investitore non deve applicare regole di investimento diverse, in genere più pesanti, da quelle applicate dagli investitori americani, altrimenti la startup, nel mercato globale, partirà già svantaggiata.
L’imprenditore (web) non può pensare di offrire il suo servizio prima in italiano e dopo, forse, in inglese.
Le università non possono pensare di fare dei corsi di imprenditorialità limitandosi ad esempi e contesti italiani.

Per tutti questi motivi, credo che, almeno in questo momento, sia meglio provare a far crescere una startup WEB nella Valley, piuttosto che in Italia.

Secondo me, Augusto ha fatto la scelta giusta. In Italia nessuno ha voluto ascoltarlo, cosa avrebbe dovuto fare? Abbandonare tutto e fare altro? NO! Ha deciso di provarci nella mecca della tecnologia, ha avuto il coraggio di lasciare il paese che non lo ha capito e non lo ha aiutato.

Se vogliamo cambiare le cose in Italia, ed evitare che i giovani vadano oltre oceano, è ora di smettere di fare solo chiacchiere. Servono i fatti!

Stefano Passatordi
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