martedì 28 dicembre 2010

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YouStartUp: i primi 9 mesi



Prima di augurarvi un buon 2011, qualche numero circa i primi 9 mesi di vita di questo blog:

- 52 post totali -> quasi 6 al mese

- oltre 9000 accessi unici. Dopo l'Italia, il secondo paese sono gli USA, in particolare la California.



- 2 dicembre il giorno con maggiori accessi unici (oltre 300) dovuti al post: "Startup: la dura verità!"

- I 5 post più letti in assoluto:

1. Startup: la dura verità! - 589 letture

2. L'esperienza di un imprenditore italiano che ha tanto da insegnare: Augusto Coppola - 512 letture

3. Un imprenditore italiano che si è affermato anche in Silicon Valley: Fabrizio Capobianco - 509 letture

4. SRL, LTD o INC ? Quale società per la vostra startup? - 487 letture

5. Imparare dall’esperienza: 10 errori da non commettere (di nuovo) - 476 letture

- Facebook si conferma come maggiore sorgente di accessi (42%), seguito da accessi diretti (21%), google (14%). Il restante 23% da vari altri blog e siti.

- Secondo feedburner, 148 persone leggono il blog direttamente nel loro feed rss

- Il browser più usato per leggere il blog è Firefox (42%), seguito da Chrome (29%), Safari (13%). Il restante 16% diviso tra altri browser.

Questi numeri per me sono un successo, grazie a tutti!




BUON ANNO A TUTTI!

Stefano Passatordi
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venerdì 24 dicembre 2010

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Buon Natale a tutti!


Auguri di Buon Natale e buone feste a tutti!


Stefano Passatordi
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lunedì 20 dicembre 2010

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Classi di azioni e dintorni, interviene l'esperto: Filippo Beretta


Il 21 Novembre ho postato sul tema del Term Sheet.
A seguito del post, molti mi hanno scritto chiedendo chiarimenti ulteriori specialmente sulle clausole e sui tipi di azioni.

Come già avevo fatto lo scorso Luglio, ho chiesto all’amico Filippo Beretta di aiutarmi a dare una risposta precisa e strutturata.Filippo è il fiduciario in USA di Ibrii e da quasi un decennio vive e lavora a Boston, ed è il fondatore di Motu Novu.

In questo suo post, come già l’altra volta, Filippo correggerà alcune mie inesattezze (non voletemene, provo a fare l’imprenditore, non il commercialista!) e approfondirà il discorso.

Ecco:

-- Su richiesta di Stefano, che ringrazio per l’ospitalità sul suo utile blog, intervengo questa volta sui seguenti temi:

1) tipologie di azioni e generale differenza tra common stock e preferred stock;
2) diritti patrimoniali;

3) diritti di governance;

4) classi di azioni.


Sorvolo le presentazioni, potete trovare tutto sul mio profilo.
Segnalo per trasparenza: la mia società di advisory, Motu Novu, offre tra l’altro servizi fiduciari (leggi: apertura e gestione amministrativa, legale, contabile, fiscale di società) in USA, e si rivolge sia a startup tecnologiche che a PMI industriali che desiderino aprire/gestire una sussidiaria commerciale in america. Sono anche l'entrepreneur in residence di DPixel e uno dei finanziatori (indiretti) di Ibrii.

1. Common e Preferred

La proprietà e il controllo delle società per azioni (es. SpA in Italia o Inc in USA) è esercitato attraverso strumenti finanziari chiamati “azioni” (“shares”).
Nella loro totalità, tutte le azioni di una società ne rappresentano il capitale (“stock capital”). Per questo, quando ci si riferisce ad azioni in modo collettivo, talvolta si usa il termine “stock”, come abbreviazione di “shares of stock capital”.
Le azioni sono strumenti finanziari che cartolarizzano alcuni diritti, ovvero attribuiscono questi diritti non ad uno dei soci direttamente in quanto tale, ma indirettamente in quanto possessore delle azioni, e spesso in misura proporzionale al numero di azioni possedute. In questo modo, per trasferire i diritti basta trasferire le azioni. Una società può avere diverse tipologie di azioni, dette “classi”, ciascuna con differenti diritti. Il tipo più semplice di azione assegna 1 diritto di proprietà e 1 diritto di voto per ciascuna azione posseduta. Il socio avrà dunque diritti di proprietà e di voto proporzionali al numero di azioni possedute.

Se un’azienda ha emesso 100 azioni di questo tipo, e il socio Stefano ne possiede 40, si può dire che Stefano possiede il 40% dell’azienda e vota per il 40% nell’assemblea dei soci. Questo tipo “base” di azioni è tipicamente detto “azioni ordinarie” o “common stock”.

Azioni con diritti ulteriori rispetto a quelli delle azioni ordinarie sono dette “azioni privilegiate” (privilegiate nel senso che hanno diritti diversi, e tipicamente più diritti, ovvero hanno dei privilegi, rispetto a quelle ordinarie o common) o anche “preferred stock”.

Da notare che le azioni privilegiate possono in alcuni casi avere anche meno diritti di quelle common. Caso tipico: le azioni privilegiate di società quotate, che hanno diritto a dividendi superiori rispetto alle azioni ordinarie, ma non hanno diritto di voto.

2. Diritti patrimoniali

Per “diritti patrimoniali” si intendono tutti quei diritti – associabili ad una classe di azioni – che attribuiscono un benefici economico diretto, attuale o potenziale.
Propongo qui una lista dei principali, descrivendo soltanto quelli non già descritti da Stefano nel suo post sul Term Sheet.

Diritto di proprietà / Property right.

Attribuisce il diritto fondamentale di proprietà (pro-quota) della società. Di norma, la % di proprietà (“fractional ownership”) di una società da parte di un socio è direttamente proporzionale al numero di azioni posseduta dal quel socio.
Tuttavia, in alcune giurisdizioni, è possibile assegnare una quota più (o meno) che proporzionale.

Diritto di prelazione / Right of first refusal.

Rimando alla descrizione fatta da Stefano nel suo post, aggiungendo solo che questo diritto di norma non è incapsulato in una classe di azioni, ma deciso tra i soci con un patto parasociale. Questo per evitare che sia “trasferibile” come lo sono le azioni, mantenendo il diritto esclusivamente tra i soci originali.

• Diritto di partecipazione agli utili / Dividend right.

Per una startup allo sbaraglio parlare di utili e di dividendi può far sorridere, ma almeno per alcune startup il giorno verrà in cui l’azienda potrà pagare dei dividendi, anche magari soltanto come strumento per un’operazione semi-complessa di ricapitalizzazione.
Il dividend right determina se e in quale misura il possessore di una azione può ottenere dei dividendi, qualora ve ne siano.
Il caso tipico: azioni privilegiate i cui possessori hanno diritto preferenziale ai dividendi, se ve ne sono e fino ad una certa misura (es. 5% del valore di mercato dell’azione) rispetto ai possessori di azioni ordinarie.

Attenzione: il tema è rilevante anche per gli startupper perchè talvolta il dividend right è usato in modo surrettizio come un tipo di liquidation preference (vedi sotto.)

• Accordi di co-vendita / Tag-along e drag-along.

Rimando al post di Stefano.

Preferenza di liquidità / Liquidation preference.

Rimando al post di Stefano.

Diritto di riscatto / Redemption right.

Rimando al post di Stefano.

Diritto di registrazione / Registration right.

Nota: questo diritto è rilevante solo per le società di diritto americano, ma per queste può avere un effetto imporantante, quindi lo includo.

Il diritto di registrazione consente il possessore (tipicamente: il VC) di costringere l’azienda a registrare le proprie azioni con la Security and Exchange Commission (SEC). La registrazione è necessaria per l’initial public offering (IPO) e anche in alcuni casi di compravendita. Poichè può costare facilemente $1-$2m, l’azienda potrebbe voler far pagare al VC: “vuoi fare l’IPO a queste condizioni? Bene, paga tu”.
Il VC dunque si premunisce e inserisce questo diritto nella classe di azioni privilegiate in suo possesso sin dall’inizio.

Accordo di non diluzione / Anti-dilution provision.

Questo è senz’altro, insieme a liquidation preference (vedi sopra) uno dei due diritti più dibattuti (talvolta in modo molto acceso) tra imprenditori e investitori in sede di negoziazione del term sheet e conseguente definizione delle classi di azioni.

Incidentalmente, si tratta anche di un tema dalle meccaniche talvolta abbastanza complesse, che forse (se Stefano mi ospiterà di nuovo) meriterebbe un post a parte. ["Filippo puoi già metterlo in agenda! ;) "]

In estrema sintesi, e senza entrare nel merito delle varie tipologie di anti-dilution (ce ne sono molte): il possessore di azioni con anti-dilution ha diritto di ottenere, in caso di down round, altre azioni a prezzo scontato o gratuito, cosi che non si diluisca.

Faccio un esempio, il più semplice. L’azienda Obroo ha emesso il primo round a $10 per azione. L’investitore DBit ha 100 azioni privilegiate, con anti dilution di tipo full-ratchet, che gli danno il 40% dell’azienda.
Se nel round successivo le cose non sono andate troppo bene, e il prezzo di emissione è di $5 per azione, l’investitore DBit avrà diritto ad ottenere gratis tante azioni quante ne avrebbe avute se il prezzo del round precedente fosse anch’esso stato $5.

Leggi: se l’equity story dell’azienda funziona e il prezzo di emissione nei vari round segue una funzione monotona crescente, l’anti-dilution non viene mai esercitata. Se qualcosa va storto, l’investitore è protetto appunto, contro la diluzione, a spese dei possessori di classi di azioni meno privilegiate o common (tipicamente gli imprenditori.)

Diritto di conversione / Conversion right.

Pressochè tutte le azioni privilegiate includono il diritto di conversione, a richiesta del possessore, in un uguale numero di azioni common. Questo diritto è tipicamente esercitato in caso di cessione o IPO, quando l’acquirente / il mercato preferisce aziende con un solo tipo di azioni.

3. Diritti di governance

• Diritto di voto / Voting right.

Per ovvio, ma quasi tutte le tipologie di azioni hanno dei diritti di voto.
Il caso più semplice è un’azione common con 1 diritto di voto per azione. In assemblea, hai tanti voti quante azioni possiedi. Tuttavia, si possono creare classi di azioni con molteplici diritti di voto, o con nessuno. Il primo caso è talvolta usato per fare “founders shares” che mantengono il controllo dell’assemblea anche in caso di forte diluizione dovuta a successivi e ingenti round di finanziamento. Questo è possibile solo se l’equity story “gira davvero”, e tipicamente non è accettato dagli investitori istituzionali.
Il secondo caso, già menzionato sopra, è quello di azioni privilegiate con forti diritti patrimoniali (specie in tema di dividendi) ma senza diritto di voto.

• Diritto di partecipazione al consiglio di amministrazione / Board seat(s).

Rimando al post di Stefano.

• Information rights.

Rimando al post di Stefano.

• Veto rights.

Rimando al post di Stefano.

4. Classi di azioni

Come scritto sopra, una società può avere diverse tipologie di azioni, dette “classi”, ciascuna con differenti diritti.
Tipicamente, i fondatori ricevono azioni di tipo common, anche se talvolta queste hanno diritti di voto allargati e/o altre privilegi, e in questo caso vengono spesso chiamate founders’ shares. Eventuali round successivi di raccolta di capitale completati con l’emissione di azioni spesso utilizzano classi di azioni privilegiate.

Queste nuove classi di azioni sono tipicamente indicate con lettere maiuscole progressive, dalla A in avanti, chiamate dunque, per esempio: “Series A”, “Series B”, ecc. dove sta per “serie o gruppo di azioni emesse”.

Di norma, le azioni di series successive tendono ad avere prezzo di emissione più alto (a meno di un down round, che fa scattare l’anti-dilution, vedi sopra) e diritti più ampi, specie quelli patrimoniali, rispetto alle azioni di series precedenti. --


Spero di aver contribuito (sebbene in misura del tutto generale) a chiarire un pochino la questione.

Invito chi abbia ulteriori dubbi o domande a contattarmi direttamente.

Filippo Beretta Founder, Motu Novu
Email: fiduciary at motu novu dot com


Grazie Filippo!

Stefano Passatordi
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domenica 12 dicembre 2010

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Un imprenditore italiano che si è affermato anche in Silicon Valley: Fabrizio Capobianco

Quanti giovani startupper italiani sognano di andare in California e portare la propria startup a livelli internazionali?! In realtà, quanti ci hanno provato e quanti ci sono davvero riusciti?!

Oggi pubblico l'intervista ad un imprenditore che è diventato un esempio per tutti coloro che partono dall'Italia e sognano di affermarsi in California: Fabrizio Capobianco.

Quando ho iniziato a fare lo "startapparo", in tanti mi hanno parlato di questo imprenditore italiano che si era affermato in Silicon Valley con una azienda chiamata Funambol.

A qualsiasi evento andassi, sentivo sempre frasi del tipo: "Se tutti fossero bravi come Capobianco", "Dovete fare come ha fatto Capobianco", "Fabrizio Capobianco come esempio" e frasi simili.

Insomma, non lo conoscevo ma, per me e tanti altri come me, era già diventato un esempio da seguire.

Quando, finalmente, sono andato in Silicon Valley, gli scrissi per chiedergli di incontrarlo. Così ho avuto l'onore ed il piacere di stringere la mano a Fabrizio Capobianco!

Durante il nostro incontro, mentre lui parlava e raccontava la sua storia, io ho pensato due cose:

1. Tutto ciò che mi avevano detto su di lui era vero. Esiste! Non era una leggenda metropolitana.

2. Quanto sarebbe bello poter arrivare dove è arrivato lui e poter raccontare, un giorno, la mia storia con tanta fierezza con cui Fabrizio ha raccontato la sua a me.

Che dire...ascoltate con attenzione le parole di Fabrizio!


Prima parte



Seconda parte



Ancora grazie Fabrizio!
Un grande in bocca al lupo per la tua nuova avventura.

Grazie,
Stefano Passatordi
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giovedì 2 dicembre 2010

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Startup: la dura verità!

Sembra che ultimamente in Italia sia esplosa una nuova moda che si chiama “startup”.

Soprattutto da parte dei giovanissimi italiani sta nascendo e sta crescendo sempre più un importante interesse nei confronti di un mondo, fino a poco tempo fa, quasi del tutto inesistente in Italia.

Sta scoppiando, anche in Italia, la “moda” delle startup. Così, come avviene in alcune zone degli Stati Uniti, anche in Italia, i giovani iniziano a pensare che dopo il liceo o dopo l’università (anche mentre), grazie ad internet, c’è la possibilità di creare qualcosa di nuovo.

La possibilità di creare lavoro piuttosto che cercarlo.

Sicuramente un dato positivo, segno che, anche in questo paese, qualcosa inizia a cambiare.

Meglio tardi che mai!

Così, negli ultimi mesi, sono nati nuovi siti online dedicati al mondo delle startup, nuovi blog (vedi questo), nuovi eventi, nuovi gruppi dedicati (soprattutto su Facebook).
Insomma, ad oggi, se un giovane dovesse decidere di intraprendere il percorso della startup, saprebbe da dove iniziare.
In Italia, ormai, c'è un numero discreto di startup, di gente con esperienza, di investitori, di eventi e di punti informativi.

Non ci sono più scuse, oggi, anche in Italia, puoi fondare la tua startup! WOW!!!!

Quello che mi capita spesso di leggere, sui gruppi su Facebook oppure sui vari blog degli addetti ai lavori, sono essenzialmente due correnti di pensiero:

1. In Italia non si può fare niente per mille motivi, mentre in California è tutto più semplice.
2. In Italia è più difficile, ma non è vero che è impossibile fare una startup.

Il mondo è bello perchè è vario, ognuno ha un proprio pensiero e, giustamente, lo condivide con il resto del mondo per confrontarsi. Entrambe le correnti di pensiero vanno rispettate.
Ognuno adduce le proprie motivazioni e riporta le proprie esperienze per sostenere la sua tesi.

Confesso, che, a volte, leggendo alcuni post e/o commenti, in merito al mondo startup in generale, mi viene da sorridere. Effettuando una veloce ricerca sugli autori dei vari post/commenti, viene fuori (almeno da quello che Google e tutti i sistemi social possono dire) che queste persone non hanno mai neanche provato a fare una startup.

Insomma, un pò come quando vai al bar lunedì mattina e tutti sono esperti allenatori di calcio.

Al contrario, apprezzo tantissimo tutti quegli interventi di persone che esprimono giudizi o fanno paragoni, portando esempi concreti e, soprattutto, di esperienza diretta e non sentita da amici di amici.

A questo punto, per quel poco che può valere, vorrei fare alcune considerazioni su quello che davvero vuol dire fare una startup. Ovviamente, tutte le considerazioni che farò sono legate alla mia personalissima esperienza reale (quindi non sono verità assolute!) e, quando possibile, userò i numeri. La matematica non è una opinione!

Il messaggio che passa spesso è: “Fare startup è bello, stimolante, una figata assurda! Può regalarti emozioni e soddisfazioni uniche.”

Sono il primo a pensare questo sul fare startup e lo sottoscrivo in toto.
Credo , però, che fino ad ora nessuno abbia messo il giusto accento sul fatto che fare startup non è un gioco! E’ difficile, non è per tutti, ti assorbe completamente, ci vuole tempo e pazienza, richiede tantissimi sacrifici.

Come promesso, analizziamo insieme le difficoltà con elmenti concreti e tangibili. Tutte le considerazioni di seguito sono generali e, tranne nei casi in cui eplicitato, valgono, secondo me, sia in Italia che nel resto del mondo.

L’idea, per quanto possa sembrare strano, è la parte più facile. Se decidi di fare una startup, in teoria, vuol dire che hai già l’idea in cui credi fermamente. Se sia valida o meno è un altro discorso, lo dirà il mercato.

Il primo scoglio da affrontare è la composizione del team (se pensate di fare tutto da soli è n volte più difficile.) Trovare persone con cui vai d’accordo, che condividono la tua vision, che sono disposti a fare sacrifici con te e che hanno la stessa fiducia che hai tu nella tua idea...NON E’ FACILE!

Lo sto vivendo sulla mia pelle, sto cercando ragazzi in gamba da far entrare nel team di Ibrii...ma è dura!

Per definizione, una startup non ha soldi e non può dare certezze. Quindi, quello che puoi offrire sono equity, tante speranze ed entusiasmo. In casi fortunatissimi, uno stipendio che rappresenta il minimo sindacale. In queste condizioni, soprattutto in Italia, è difficilissimo trovare persone disposte a seguirti..per ovvi motivi.

Bisogna anche considerare che l’età è un fattore importantissimo, più ti rivolgi a persone adulte e più è difficile che ti seguano. Rispetto ad un 20enne cambiano le prospettive, lo stile di vita, cambia tutto. In California, per quella che è stata la mia breve esperienza, è comuque difficile, ma hai delle possibilità superiori rispetto all’Italia.
Lì di 20enni che hanno voglia di fare startup ce ne sono tantissimi, grazie al fondamentale ruolo che svolgono i college e le università nel creare la mentalità imprenditoriale giusta.

Se sopravvivete alla questione team, arriva il lato economico. Come vi mantenete?

In merito, devo levarmi qualche sassolino dalla scarpa. Troppo spesso ho letto nelle varie discussioni frasi del tipo: “Che ci vuole, bastano poche migliaia di euro e fai la startup”.

La mia domanda è: “Ma state scherzando?Dove vivete?”

Quando leggo queste cose, mi viene da pensare che:

1. Chi le scrive non ha mai provato a fare una startup e fa un altro lavoro con posto fisso. Quando ha tempo esprime la sua opinione in merito.

2. Chi scrive ha dimenticato gli inizi, oppure, ha avuto un inizio facile perchè i soldi già li aveva.

3. Scrivono per scherzare.

Senza considerare l’opzione “lavoro già e nel weekend o la sera mi dedico alla mia startup”, consideriamo chi, come me, ha deciso di dedicare anima e corpo al proprio progetto.
In questo caso, bisogna considerare che da qualche parte dovrai pur prendere il denaro per sopravvivere.
Per quanto mi riguarda, mi posso ritenere molto fortunato. Per i primi mesi la mia famiglia mi ha sostenuto e subito dopo è subentrato l’investitore. Non tutti sono così fortunati però.

Non considerando il caso in cui si vive a casa con la famiglia, la mia domanda è: “Dove si prendono i soldi per portare avanti il progetto e poter sopravvivere? (attenzione, ho usato il termine sopravvivere...)”

Quando lanciate una startup, il tempo minimo che dovete considerare affinchè qualcosa di buono possa accadere sono 8/12 mesi, anche questo caso fortunato. Se non siete soli, ma siete un team, il problema è amplificato. Allora, è ancora vero che bastano poche migliaia di euro?!

Secondo me, la frase corretta è:
Grazie ad internet e alle nuove tecnologie, se vuoi lanciare una startup WEB, serve un investimento molto inferiore rispetto alle aziende classiche. SE hai qualche migliaia di euro da investire, puoi PROVARE a metter su la tua starup”.

La questione economica è la prima causa per cui tanti validi progetti non partono o falliscono dopo poco.
Per questo motivo, in California esistono incubatori che non danno solo spazio e contatti, ma anche denaro per far sopravvivere il team.

Evidentemente, Paul Graham, non ha pensato “Tanto ci vogliono poche migliaia di dollari, che ci vuole!?” ma ha pensato “Sono poche migliaia di dollari, però servono!”.

Anche da questo punto di vista, in Italia è più difficile. Molto probabilmente sbaglio, ma non conosco incubatori italiani che ti finanziano “poche migliaia di euro” solo per sviluppare la tua idea e poi...come va va. Conosco incubatori che ti offrono spazi a costi ridotti e contatti. Meglio di niente direi! In California esistono realtà come Ycombinator, TechStars, fbFund e altri ancora.

Se risolvete anche la questione economica, siete a buon punto. Secondo me, avete superato le difficoltà maggiori. Ma non rilassatevi troppo, dovete ancora fare i conti con il prodotto, il mercato, altri investitori e gestione della società.
Queste parti le evito, ci vorrebbe troppo tempo e spazio per parlarne seriamente.

Arrivati a questo punto, siete ancora convinti di voler fare una startup?
Se ancora ci credete, continuate a leggere...

Adesso vorrei sfatare un mito: la California.

Premesso che, secondo me, è vero che è più facile fare una startup in California rispetto all’Italia, è vero anche che non è proprio un gioco da ragazzi.

Sul fatto che sia più facile fare una startup in California rispetto all’Italia, credo che sia un dato oggettivo dovuto ad aspetti socio-culturali differenti. Per farvi capire di cosa parlo, vi faccio un piccolo esempio. In questo post e poi anche qui, un finanziamento di oltre $1M di dollari viene ritenuto un seed. In Italia, il seed, arriva fino a max 250k euro (ma proprio esagerando!).
Non voglio neanche provare a mettere a paragone la quantità di equity che chiedono in Italia rispetto alla California...

Questo dato deve servire per farvi capire che sono due mondi completamente diversi, con scale così diverse da renderli non paragonabili.

Veniamo adesso ad un aspetto importantissimo. Si parla sempre e solo dei casi di successo, vedi Facebook, Twitter e ancor prima Google. Perchè non si parla mai dei casi di fallimento? Perchè non si dice che anche in California, per ogni startup che ha successo ce ne sono altre n che muoiono? Questo cosa vuol dire?!..che anche in California non è facile!
Non è detto che basti andare lì per avere successo, non è detto che basta un post su Techcrunch per diventare la startup del momento.

In merito a questo aspetto, vorrei analizzare con voi i dati presi da qui.

Su un totale di 476 startup incubate, abbiamo:

- 20 con exit, di cui il 99% appartenenti a Ycombinator
- 27 sono fallite
- Le restanti 429 sopravvivono grazie a “piccoli” seed o investimenti di varia grandezza.

In ogni caso, quante startup di queste sono davvero conosciute???!!!

Quello che viene fuori da questo spaccato californiano, che esclude i grossi VCs, è che, mediamente, in California il 4% delle startup arriva ad una exit, poco più del 5% muore, il restante 90% sopravvive (sarebbe interessante sapere quanto tempo passa in media prima di fallire o avere una exit).

E’ importantissimo sottolineare che parliamo di startup che hanno ottenuto un finanziamento.

Se dovessimo considerare tutte le startup in assoluto che nascono in California, credo che la % di quelle che falliscono sia molto ma molto superiore.

Per concludere, fare una startup è una sfida che, se vinta, credo che possa regalare emozioni e soddisfazioni senza pari, ma il percorso è molto difficile, in salita. Che tu sia in Italia o in California, varia solo la pendenza, da nessuna parte nel mondo fare impresa è una passeggiata e, soprattutto, non c’è posto sulla terra dove tu possa partire senza avere anche poche migliaia di euro da investire.

Grazie,
Stefano Passatordi
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venerdì 26 novembre 2010

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L'esperienza di un imprenditore italiano che ha tanto da insegnare: Augusto Coppola

Dopo Marco Magnocavallo, vi presento l’intervista ad un imprenditore che molti di voi già conosceranno di persona, soprattutto gli startupper di Roma: Augusto Coppola, CEO di Eris4.

Permettetemi di spendere due parole su Augusto, prima di passare all’intervista.

Conosco Augusto Coppola, personalmente, da poco tempo, meno di un anno, ma sento di poter affermare che Augusto dovrebbe essere preso come esempio da tutti i giovani imprenditori. Me per primo.
Sono sicuro che la maggior parte di voi, non sa che Augusto ha alle spalle una exit che potrei definire “clamorosa” (60X come leggerete nell’intervista).
In pochi sanno questo perchè Augusto, oltre ad essere un gran lavoratore, è una persona umile. Uno di quelli che pensa ai fatti più che alle parole.
Tutte caratteristiche che un giovane imprenditore dovrebbe avere, secondo me.

Ho chiesto ad Augusto di sfruttare questa intervista per trasmettere qualcosa a noi giovani imprenditori. Per farci capire gli errori che si possono commettere e quale dovrebbe essere lo spirito giusto per portare una startup a livello di azienda.

Il mio consiglio è di leggere con attenzione le sue parole e farne tesoro.

1) Ciao Augusto, anche se nell’ambiente di noi startupper sei già conosciuto, vuoi presentarti e dirci chi sei e cosa fai?


Sono un imprenditore e manager con un focus sull’execution. Ho fatto parte del team di founders di due startup: Smarten Software ed ERIS4. Ho speso una parte consistente degli ultimi 15 anni a presentare le mie startup a clienti, partner ed investitori in molti paesi europei, in America, Asia ed Africa. Ultimamente ho iniziato ad essere maggiormente attivo nelle iniziative per la nuova imprenditoria: faccio parte della governance del chapter italiano di BAIA (www.baia-network.it), cerco di dare una mano alle startup italiane fornendo consigli e contatti, sono presente a molti eventi di networking del settore, vado in giro a tenere inspirational speech :) e, infine, ho contribuito alla creazione di Innovation Lab (http://innovationlab.dia.uniroma3.it), un’iniziativa che ambisce ad insegnare ai giovani universitari come sia possibile fare una startup di interesse per i fondi di Venture Capital internazionali. Nel tempo libero amo stare in famiglia, i piacere conviviali, la conversazione brillante e le lunghe passeggiate.

2) Potresti raccontarci qualcosa in più circa il tuo inizio, quando, per la prima volta, ti sei affacciato al mondo startup?

Dopo un’esperienza in UK sono tornato in Italia nel 1997 come responsabile di business unit di una dinamica software factory romana. Dopo pochi mesi, il proprietario di questa società mi chiese di entrare a far parte di un progetto di startup nel quale, con il contributo anche di altri colleghi, avremmo fatto confluire le idee che erano maturate in azienda su come utilizzare le nuove tecnologie per progettare sistemi di Customer Care & Billing innovativi. All’inizio rimasi molto perplesso: non sapevo cosa fosse una startup, non mi era chiaro cosa questo avrebbe comportato e non avevo mai lavorato nello sviluppo di prodotti software, ma solo in progetti di system integration. Inoltre in quel momento avrei potuto guadagnare molto di più se avessi lasciato l’azienda e fossi andato a lavorare da qualche altra parte. Fortunatamente alla fine accettai la scommessa e, pur con molti momenti di dubbio e anche di serrato confronto interno al team, riuscimmo in circa tre anni ad ottenere dei risultati che credo siano di assoluto interesse ancor oggi: chiudemmo importanti contratti con clienti di assoluto prestigio, aprimmo sedi a Londra, Parigi, Vienna, Dubai, Kuala Lumpur e negli States e alla fine vendemmo l’azienda ad un importante gruppo fornendo ai nostri investitori un ritorno di oltre 60 volte l’investimento iniziale.

3) Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato lungo il tuo percorso?

All’inizio la paura del futuro. Sono cresciuto, come molti altri della mia generazione, nella cultura del posto fisso. E’ una cultura che implicitamente demanda ad altri (chi ci dà lavoro e ai politici) il compito di scrutare il mercato e scegliere per noi che, nella migliore delle ipotesi, siamo solamente esecutori di strategie individuate da altri. Da questo punto di vista anche la cura della nostra professionalità viene demandata ad altri: molte volte non sarà affatto necessario chiedersi se le esperienze che stiamo maturando hanno un qualche significato professionale, ma solamente se sono funzionali allo sviluppo dell’azienda che ci fornisce il posto (pensa, ad esempio, ai tanti che fanno carriera semplicemente gestendo gli aspetti “politici” dentro una grande azienda). Ancora oggi, dopo molti anni di imprenditorialità, questo “imprinting” non mi lascia, e sono sempre dubbioso sulle mie capacità di affrontare il futuro e di intraprendere dei percorsi professionali di valore. Il secondo ostacolo è stato la mancanza di una preparazione anche solo teorica di cosa significhi fare impresa che né l’università, né le esperienze lavorative, né, infine, la società in cui vivevo mi avevano fornito. Tale carenza mi ha portato a fare diversi errori come, solo a titolo di esempio, quello di pensare che la qualità dell’execution fosse limitata alla capacità di realizzare in modo compiuto ed economicamente efficiente l’idea tecnica alla base della startup. Non è così. La qualità dell’execution è legata alla capacità di costruire un’azienda efficiente, in cui, ad esempio, gli aspetti tecnici siano la piattaforma sopra la quale quelli commerciali possano funzionare generando i flussi di cassa necessari a remunerare gli investitori, a premiare chi ci lavora e ad auto-finanziare nel tempo l’evoluzione dell’azienda stessa. Nessuna idea ha una validità che dura per sempre anzi, molto più spesso, la validità di un’idea non dura neanche il tempo della sua realizzazione.

4) Quali gli errori più importanti che hai commesso e che potrebbe commettere un giovane startupper?

Ho commesso così tanti errori che non credo tu abbia lo spazio blog sufficiente per darne conto. Un aspetto di cui sono orgoglioso, però, è che tutti gli errori commessi li ho sempre pagati, e senza sconti, in prima persona. Ci tengo a fare questa precisazione perché credo che, prima di ogni altro discorso, un giovane startupper debba essere cosciente che inevitabilmente farà diversi errori e molti di questi, con il senno del poi, saranno così solarmente stupidi da far sentire chi li ha commessi un perfetto idiota. Alcuni errori saranno gravi, di altri ci vergogneremo, altri ancora li dimenticheremo dopo un po’, ma in ogni caso è fondamentale che lo startupper si chieda se sia realmente pronto ad accettare sempre, personalmente e a schiena diritta, tutte le conseguenze delle proprie azioni. Se non lo è, consiglio di lasciar perdere: la capacità di imparare dai propri errori è direttamente proporzionale alla nostra capacità di riconoscerli ed accettarli come tali, senza cercare puerili giustificazioni. Per rispondere alla domanda: ritengo che due degli errori che ho commesso siano abbastanza comuni: il primo è relativo alla mancanza di disciplina nell’analisi del mercato, il secondo, invece, nella mancanza di disciplina nella gestione del team. Credo inoltre che entrambi questi errori abbiano una comune radice nella presunzione. Provo a spiegarmi: cominciamo dal primo errore. Sia nella prima che nella seconda startup, siamo partiti con un’idea molto precisa del prodotto che avremmo offerto al mercato, di quali sarebbero stati i suoi elementi di forza, quali problemi dei nostri clienti avremmo risolto e, ovviamente, di chi fossero i nostri clienti. Purtroppo però tali assunzioni erano del tutto erronee. Di fatto, in entrambe le startup il modo in cui i nostri clienti usavano il prodotto, i motivi per cui lo facevano e anche chi fossero realmente i nostri clienti erano tutti elementi che avrebbero dovuto sorprenderci non poco se solamente avessimo avuto una disciplina di raccolta ed interpretazione dei dati che non fosse superficiale. Il motivo per cui l’errore fu reiterato nella seconda startup fu molto semplice: il successo della prima, dovuto in gran parte all’aver indovinato la vision, cioè di aver capito quale evoluzione era in atto sul mercato, mi rese talmente arrogante da non capire bene cosa fosse realmente successo e la mancanza di una disciplina di analisi rese più facile crogiolarmi nella mia sciocca vanità Solamente quando nella seconda startup, che si è chiusa senza alcun ritorno tangibile per gli investitori, mi sono dovuto confrontare con i miei errori allora ho visto con chiarezza che lo stesso pattern si era instanziato due volte e che, in quest’ultima occasione, i messaggi ricevuti dal mercato non solo indicavano che il prodotto non era pienamente centrato sulle esigenze dei clienti, ma che il mercato stesso stava cambiando in una direzione che non era quella prevista dalla nostra vision. Per quanto riguarda, invece, il secondo errore si deve tener presente che nella prima startup il team dei founders non era stato una mia scelta, ma quella del CEO. Io fui responsabile solo della formazione del team dei miei collaboratori. Dopo qualche tempo notai che mentre nel team dei founders c’erano dei contrasti interni, a volte anche aspri, tali contrasti erano del tutto assenti nel team dei miei collaboratori. Ancora una volta il successo della startup e, al suo interno, il successo del mio team mi rese presuntuoso: pensai che al momento di fondare una nuova startup avrei scelto io il team dei founders e che non avrei certamente fatto gli stessi errori che avevo visto nel team scelto dal CEO della prima. Effettivamente non feci nessuno di quegli errori, ma in compenso riuscii a farne di nuovi! In estrema sintesi formai un team di superstar dello sviluppo software, un gruppo di persone divertenti con un incredibile talento tecnico e creai un ambiente nel quale lavorassero in piena armonia. Purtroppo non tenni conto del fatto che in una startup le cose difficilmente vanno come preventivato e che può accadere che le persone con grande talento tecnico tendano a cercare sempre nuove sfide nello sviluppo piuttosto che seguire una disciplina di azienda. In sostanza, dopo un po’ quello che si fa non è più “eccitante” perchè si deve passare dalla entusiasmante fase di progettazione e sviluppo a quella apparentemente meno stimolante e routinaria di saggio di mercato ed aggiustamento di quello che si è fatto. E’ il solito contrasto tra chi pensa che una buona idea tecnica emerga sempre per i soli propri meriti e chi invece crede sia la base sulla quale costruire, ma che la differenza la faccia l’execution. Laddove non si sia fatta molta attenzione alla costruzione della compagine sociale, questa situazione può portare di fatto ad una vero e proprio stallo dal quale è impossibile uscire.

5) Credi che rispetto a qualche anno fa, quando hai iniziato, qualcosa sia cambiato in Italia? Chi inizia oggi, è più o meno fortunato rispetto a prima?


Credo che in Italia siano in atto dei mutamenti che rendono complessivamente più facile fare una startup che in passato. Non parlo tanto di mutamenti legislativi, ambito nel quale purtroppo il panorama non è cambiato molto, quanto dei mutamenti a livello globale in termini economici, sociali e di accesso alle risorse. Ovviamente fare una startup in ambito web 2.0 è immensamente più facile che farne una in ambito, dico per dire, Waste Management, ma anche per startup in ambiti più complessi lo sviluppo del web da un lato e i riflessi delle nuove condizioni del mercato globale dall’altro hanno portato ad una facilità di accesso e condivisione delle informazioni e alla necessità di trovare impieghi efficienti del capitale che fino a qualche anno fa erano impensabili.

6) Se tu ne avessi il potere, cosa cambieresti in Italia per agevolare e stimolare i giovani imprenditori?

Cercherei di aprire il mercato per tutti, intervenendo sulle relazioni tra pubblico e privato. Anzi tutto eviterei gli interventi di salvataggio delle aziende decotte. Credo che sia socialmente saggio, e dunque necessario, dare un sostegno a chi rimane senza lavoro, ma le aziende vanno lasciate fallire. Se non si segue questa strada, il management non si rinnova e senza tale rinnovamento si creano dei circoli chiusi ed auto-referenziali di dirigenti incapaci il cui unico asset è quello relazionale (generando quello che alcuni chiamano il “capitalismo dei compari”). Poi abolirei del tutto i sostegni pubblici diretti alle aziende. Credo che l’enorme quantità di denaro che si riversa sulle aziende sotto forma di sostegni comunali, provinciali, regionali, statali, europei sia assolutamente perniciosa e vada combattuta in tutti i modi (in quanto genera quello che, parafrasando quanto sopra, chiamo il “socialismo dei compari”). Infine stimolerei la competizione attraverso misure fiscali, di riassetto della giustizia civile e di apertura del mercato finanziario. In un ambito a bassa competizione, è inevitabile che ci sia un’alta avversione al rischio (perché paga poco) e quindi alle innovazioni. E un mercato che non innova è un mercato chiuso alle idee e quindi, per chiudere il cerchio, basato solamente sulle relazioni.

7) Quale è il tuo punto di vista circa la Banca Nazionale dell’Innovazione, proposta da Gianluca Dettori?

Conosco poco il progetto per esprimere un parere puntuale. In termini generali, direi che i punti di maggiore attenzione nascono dal capire che i politici cercano consenso di natura elettorale. Tale ricerca del consenso è spesso a brevissimo termine. Un progetto che sia basato su risorse pubbliche, controllate quindi dalla politica, deve avere delle garanzie di lunga durata che impediscano le interferenze dovute al continuo alternarsi delle esigenze politiche, una governance cristallina, massima pubblicità di tutte le operazioni di investimento e dei risultati tangibili in termini di RoI ottenuti (per capirci, è la capacità delle aziende di creare ricchezza che crea occupazione e non viceversa).

8) Quali sono i consigli che ti senti di dare ai giovani che oggi decidono di fondare una startup?

Ne dò tre: due molto terra terra ed un altro, invece, con prosopopea didascalica :) Cominciamo dal primo: fate un lavoro durante il periodo degli studi. Meglio ancora se iniziate alle scuole superiori. Non parlo di lavori occasionali, parlo di spendere una parte importante del vostro tempo libero a lavorare: diciamo che dovreste essere almeno in grado di pagarvi completamente gli studi e tutte le spese voluttuarie (tasse, libri, spostamenti, cinema, cellulare, serate e così via). Passiamo al secondo: imparate l’arte del pitch, cioè a presentare le vostre idee in modo completo, accattivamente e in poco tempo. In ogni momento dovete essere in grado di dire tutto quello che è veramente importante in meno di un minuto (il cosidetto elevator pitch) e dovete essere in grado di recitare a memoria il vostro 7 minute pitch. Se usate le slide, cercate di imparare come si debbono strutturare. Se non ci riuscite, allora significa che l’idea non riuscirà mai ad interessare un investitore professionista e che, molto probabilmente, non ha molte chance di generare una startup valida in ambito internazionale. Infine il terzo: non siate superbi. Molte volte chi fa una startup innovativa è mosso da una sincera ambizione di cambiare il mondo in meglio. Questo idealismo però a volte si scontra con la dura realtà del mercato e degli uomini. Quando questo accade, la reazione del superbo è molto semplice: sulle prime si intestardisce nel suo approccio e poi, alla fine, rinuncia a lottare rifugiandosi nello sdegno auto-assolutorio. Ti faccio un esempio: supponi di sviluppare un prodotto eccezionale che risolve un problema marketing di grandi clienti. Provi a venderlo e improvvisamente ti accorgi che la cosa è più difficile di quanto pensassi: i grandi clienti hanno delle strutture complesse in cui ciascuna ha un qualche potere di veto sulle decisioni di un’altra; i fornitori già presenti fanno pressioni per non farti entrare; vieni avvicinato da presunti facilitatori che ti chiedono delle elevatissime commissioni per semplificare le procedure; l’ufficio acquisti ti dice che devi fare uno sconto del 70% perché altrimenti comprano un’altra soluzione che tu sai benissimo non c’entra nulla con quello che fai tu e così via. In questo caso, la reazione dettata dalla superbia è spesso quella di lasciare stare il cliente al suo destino, che immagini sempre a fosche tinte, e reiterare l’esperienza con un altro fino a quando, vinto dagli eventi, mollerai la tua startup rimettendoci soldi, tempo, entusiasmo, senza aver reso il mondo un posto migliore, ma con la auto-giustificazione che sei moralmente superiore agli altri. Io credo, invece, che questo non sia vero. E’ umano rinunciare a lottare per stanchezza, ma pur sempre una rinuncia è e, prima di farlo, bisognerebbe avere il coraggio di chiedersi se si è fatto tutto per riuscire. Nell’esempio fatto, ovviamente, l’errore dell’ipotetico startupper è quello di non capire che i grandi clienti hanno delle strutture e che proporre prodotti trasversali su queste strutture implica dover fornire a ciascuna dei chiari vantaggi competitivi e che dunque è su questo aspetto che bisogna lavorare.

9) Quale è la tua posizione rispetto alla questione Silicon Valley, credi che oggi sia un passo dovuto quello di provare ad aprire la propria startup lì?

Credo che chiunque voglia fare startup farebbe bene a passare un periodo di “condizionamento” in Silicon Valley. Lo credo perché è necessario avere un modello di riferimento di come dovrebbero funzionare le cose, per accumulare tanto entusiasmo, per iniziare a sviluppare una rete di rapporti di valore da utilizzare nella propria attività ed anche per capire meglio cosa significa lavorare in un ambito fortemente competitivo e, di conseguenza, se si ha la stoffa dello startupper. Non credo, invece, che sia sempre necessario aprire la propria startup nella Silicon Valley come recenti casi di successo (ad esempio Venere, Gioco Digitale e Neptuny) insegnano.

10) Secondo te, quali sono le tre principali caratteristiche che deve avere un giovane che decide di fondare una startup in Italia?

Grinta, non arroganza.
Determinazione, non testardaggine.
Capacità di sognare, non infantilismo.

11) Attualmente di cosa ti occupi e quali sono i tuoi prossimi progetti?

Al momento sto terminando le operazioni di vendita di ERIS4 e, tanto per dare un senso alle mie giornate, ho dato vita, insieme a due amici professori universitari, ad Innovation Lab. Si tratta di una iniziativa che si rivolge principalmente, seppur non esclusivamente, ai neo-laureati e ai giovani nella università italiane. Lo scopo è quello di favorire la nascita di una nuova cultura imprenditoriale che guardi al mercato e alla interdisciplinarietà come elementi chiave per la propria formazione. La visione del mercato è acquisita esponendo gli studenti per oltre il 75% del tempo ad incontri diretti e non mediati con investitori privati (angels e fondi di Venture Capital) e con imprenditori (possibilmente di prima generazione) che abbiano maturato significative esperienze sui mercati nazionali ed esteri (ce ne sono molti di più di quanto si sia portati a credere). La interdisciplinarietà nasce dal fatto che siamo convinti che le innovazioni che cambieranno il mercato nel prossimo futuro non possano venire che dalla capacità di abbattere le barriere che tradizionalmente separano ambiti come l’ingegneria, la biologia, il design, l’economia e così via. Durante i nostri corsi, che sono del tutto gratuiti e non prevedono la presenza di presunti consulenti a latere, gli studenti imparano quella che, a mio modo di vedere, è la cosa più importante che si possa insegnare ad uno startupper: fare un pitch. Vedi, io credo che nel pitch ci sia tutto quello che ti serve per capire il valore della tua idea e sono altresì convinto che sia il passo più importante e critico nel relazionarti con gli investitori, i partner e i clienti. Sintetizzando direi che il famigerato business plan è solamente un’estensione del pitch e non, come molti sono portati a pensare, che il pitch sia un’esposizione ridotta del business plan. Innovation Lab ha preso vita a febbraio 2010 e ritengo di poter dire che i risultati ottenuti sono stati apprezzati da tutti coloro che hanno partecipato inclusi i fondi di investimento privati operanti nel nostro Paese (DPixel, Innogest, 360 Capital Partners, Meta Group, Vertis, Quantica, IAG e così via). Alcuni ragazzi selezionati da Innovation Lab ora lavorano nella Silicon Valley, altri hanno vinto premi presitigiosi, altri ancora stanno negoziando le loro startup con i fondi e inoltre le aziende più innovative (quelle, per intenderci, che cercano talenti e non solo “laureati”) cominciano a chiedermi di assumere i ragazzi di Innovation Lab. Tutto questo è molto gratificante, ma non potrà continuare senza il sostegno e la simpatia di chi nel nostro Paese si batte per la creazione di un nuovo tessuto imprenditoriale, per cui vorrei chiudere con un appello ai tuoi lettori: se non conoscete Innovation Lab contattatemi e se dopo averlo conosciuto pensate che ne valga la pena, allora dateci una mano a far crescere l’immagine di questa iniziativa a livello nazionale e internazionale. Farlo è semplice: basta parlarne ed indicarla a tutti coloro che ne hanno bisogno. Se poi volete mettere a disposizione la vostra esperienza con i ragazzi, avrete, per quel che può valere, la mia sincera gratitudine così, come ben sai, l’hai tu che sei sempre stato disponibile non solo con Innovation Lab, ma con l’intero ecosistema della nuova imprenditoria italiana.
Grazie.


Grazie ad Augusto Coppola!


Stefano Passatordi
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I Realize Lean Start-up Hack - VIDEO


Lo scorso 17 Novembre si è tenuto a Torino l'evento "I Realize Lean Start-up Hack & Google Site Clinic", dedicato al mondo delle lean startup.

Evento molto interessante e ben strutturato. Colgo l'occasione per ringraziare tutti i ragazzi di TOP-IX. Grazie!




Ciao a tutti,
Stefano Passatordi
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domenica 21 novembre 2010

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Term Sheet per tutti


L’obiettivo di tante startup è quello di ottenere dei finanziamenti, siano essi provenienti dalla famiglia, da amici, Angels, seed investors o grandi VCs.

Ovviamente, in base a chi ci stiamo rivolgendo, cambiano le condizioni e le trattative per l’investimento.

Con la famiglia e gli amici, in genere, basta una stretta di mano (o no?!). Con gli Angels, in genere, si usano le convertible notes e, senza perdere troppo tempo, ci si ritrova con i soldi sul conto in banca. Spesso anche i seed investors utilizzano le convertible notes, per rendere il processo più veloce e meno costoso.

Indipendentemente da come venga effettuato a livello burocratico il finanziamento, quasi sempre, seed e grossi VCs fanno firmare un misterioso documento che si chiama: Term Sheet.

In poche e semplici parole, il term sheet è un documento ufficiale, firmato dalla startup e dall’investitore, in cui si delineano i termini del futuro investimento. Potete concettualmente associarla ad una “lettera di intento”.

Essenzialmente, il term sheet ha due scopi principali:
1) Riassume tutti i più importanti aspetti finanziari e legali relativi all’investimento.
2) Quantifica il valore dell’investimento.

Una volta firmato da tutte le parti, il term sheet rappresenta la base di partenza per il contratto di investimento finale. Ogni term sheet ha una durata massima, oltre la quale, se non rinnovato, scade e con esso cadono tutti gli accordi firmati. Mediamente, un term sheet dura 3 mesi. Durante questo tempo, l’investitore esegue la due diligence nei confronti della startup.
Se al termine della due diligence, l’investitore conferma la volontà di investire, allora si riparte dalle clausole e condizioni del term sheet. Altrimenti dovete cercare un altro investitore e ricominciare tutto da zero.

Ricordate che, tipicamente, ogni term sheet ha una clausola di esclusività. Questo vuol dire che durante i mesi di durata del term sheet con un investitore A, voi non potete avere rapporti con altri investitori al difuori di A stesso.
Fate attenzione a questa clausola e pensate alle relative conseguenze prima di firmare ad occhi chiusi.

In realtà, ci sono tante clausole a cui dovete stare attenti prima di firmare. Proviamo ad esaminare quelle più importanti, quelle più diffuse e comuni.

In genere, la prima parte del term sheet contiene i dati della startup e dell’investitore, seguiti poi da una breve descrizione del servizio che offre la startup stessa.
Subito vengono esplicitate le quote di partecipazione nella società, a seguito dell’investimento.

Qualcosa simile a (valori a caso!):
- Shareholding: 85% founders e 15% investor
- Financial round: $200.000 ad una valutazione pre-money di $300.000 e post-money di $500.000.

Successivamente, vengono elencati tutti i vari termini dell’investimento.

Ad esempio:

- Veto rights: lista di situazioni decisionali su cui l’investitore ha il diritto di veto. Ad esempio, se volete mettervi uno stipendio di $15.000 dollari al mese (sarebbe bello vero?!)...non siete voi a decidere, ma l’investitore! Molto probabilmente vi dirà di no, e vi dirà quale importo massimo accetta come vostro personale compenso. Stesso discorso potrebbe valere per tutte le spese superiori ad una certa cifra.

- Board of directors: questa clausola stabilisce quanti sono i membri del board e chi dovranno essere. Sicuramente almeno uno sarà un rappresentante del vostro investitore. Gli altri, in genere, sono i founder. Vi consiglio di lasciare almeno un posto “libero” per qualcuno esterno, ma con esperienza e che possa aiutarvi.

- Tag along: questa clausola serve a proteggere il socio di minoranza (per un seed, in genere, è l’investitore in minoranza). In pratica, se il socio di maggioranza decide di vendere tutte o parte delle sue quote, allora anche il socio di minoranza ha il diritto di vendere le proprie alle stesse condizioni. Ad esempio, se un founder decide di vendere una parte delle sue quote a terzi, allora l’investitore ha il diritto di fare lo stesso alle stesse condizioni.

- Drag along: è un pò l’opposto del tag along, protegge i soci di maggioranza. In pratica, se ricevete una offerta per acquistare una grossa % della società e non ce la fate solo con le vostre quote, allora i soci di minoranza sono obbligati a vendere anche le loro quote, alle stesse condizioni, fino al raggiungimento della % totale da vendere. Anche se, in teoria, è una clausola usata dai soci di maggioranza, l’investitore usa il drag along per obbligarvi a vendere le vostre quote se ricevete una offerta di acquisto molto alta, ad esempio almeno il 50% della società. Ovviamente tutto questo avviene solo se l’investitore lo ritiene opportuno.

- Liquidation preference: questa clausola viene applicata quando la compagnia subisce un evento di liquidazione. Ad esempio, la vendita della società stessa. Tramite questa clausola, l’investitore cerca di proteggere il suo investimento iniziale, provando a recuperare, per primo, tutto quello che è di valore nella società. In genere, questa clausola contiene un fattore moltiplicativo tramite il quale l’investitore fissa l’importo che gli spetta se si verifica un evento di liquidazione. Ad esempio, l’investitore può volere 3 volte il suo investimento iniziale. Quindi se investe 100, tramite la liquidation preference, può chiedere 3X100 = 300.
Ricordate sempre, che questa clausola non solo permette all’investitore di stabilire quanto riprendersi, ma gli concede anche il diritto di essere il primo in assoluto a poter recuperare l’investimento. Prima viene ripagato l’investitore e, solo dopo, se rimane qualcosa (tra cash e asset) vengono divisi tra i founder e ancora l’investitore, in base alle quote di partecipazione in società.

- Redemption: questa clausola viene utilizzata dall’investitore per assicurarsi che il suo investimento non diventi un vitalizio per i founder. Se dopo un certo numero di anni X, la startup non genera profitto, ma serve solo per pagare lo stipendio ai founder, allora l’investitore, con questa clausola, ha il diritto di riprendersi l’investimento e anche di più. Le modalità della redemption variano da a caso a caso, dipende da tanti fattori.

- Information rights: questa clausola garantisce all’investitore di avere accesso a tutte le informazioni riguardo la società ed il prodotto, ogni volta che lo ritiene opportuno. Spesso con scadenze stabilite, ad esempio un report completo su tutto ogni 3 mesi.

- Right of First Refusal: con questa clausola l’investitore si assicura il diritto di poter intervenire in qualsiasi vendita di azioni della società, sia common che preferred, e poter decidere se comprare lui le azioni, oppure, addirittura, bloccare la vendita.

Queste sono le principali clausole inserite tipicamente in un termsheet.

Ho volutamente messo da parte tutte quelle che sono associate alle diverse classi di azioni, common e preferred. Essendo un discorso abbastanza complicato lo tratterò in un post a parte.

Quando, per la prima volta nella mia vita, mi sono trovato avanti un term sheet, per di più in inglese, mi sembrava arabo. Lo leggevo e lo rileggevo, ma non riuscivo mai a capire il senso di alcune clausole, anzi, spesso, ad ogni lettura assegnavo un significato diverso al paragrafo. Fortunatamente, dopo un pò di studio (internet e google sono tuoi amici!) ho cominciato a masticare i term sheet e a capirne il senso per ogni clausola.

Spero che questo post vi possa chiarire le idee!

Per la questione common VS preferred e tutto il mondo che gira dietro le diverse classi di azioni, rimando la discussione in un prossimo post.

Buona trattativa a tutti,
Stefano Passatordi
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venerdì 12 novembre 2010

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L'esperienza di un imprenditore italiano che ha avuto successo: Marco Magnocavallo

Ultimamente si è sviluppata una accesa discussione sulla questione Silicon Valley vs Italia.
C'è chi è convinto che andare in SV sia un passo obbligatorio per una startup, l'unica vera possibilità di raggiungere il successo e la gloria. Altri, invece, sostengono che non è assolutamente un passo obbligatorio spostarsi dall'Italia per andare nella Valley...anzi.

Si discutono sempre i casi di successo in Silicon Valley e quelli mancati in Italia. Credo che, per crescere e prendere la direzione giusta, non si drovrebbe parlare senza conoscere realmente le situazioni. Prima di affermare che in Italia non esistono casi di successo...bisognerebbe informarsi.

In Italia non ci sono così tanti esempi di successo come nella Valley, questo è inutile negarlo, ma non è neanche corretto affermare che in Italia non ci sia proprio niente...

Per questo motivo, ho deciso che, a cominciare da oggi, cercherò di contattare ed intervistare gli imprenditori web italiani che hanno avuto successo, per dar voce alle loro storie e per imparare dalle loro esperienze.

Una qualità che non deve mancare ad un aspirante imprenditore di successo è l'umiltà di imparare da chi già ha seguito lo stesso percorso..molto prima di noi!


Oggi vi presento l'intervista a Marco Magnocavallo, CEO di Blogo.it (12 milioni di utenti unici mensili in quattro paesi...non male per essere italiana!).

1) Ciao Marco, anche se in Italia sei già conosciuto ed affermato come imprenditore web di successo, vuoi presentarti e dirci chi sei e cosa fai?

Amo il web e mi diverto a ideare e lanciare prodotti.

Ho iniziato nel 1996 fondando una web agency (Communicate!) nella quale ho fatto un po’ di tutto: programmatore prima, project manager dopo e negli ultimi due anni, con una struttura di 25 persone e clienti di medio-grosso calibro – Poste Italiane, McKinsey, Lycos, Daimler-Chrysler - il CEO.
Ho venduto Communicate! a una società in pre-IPO, poi ho fondato un sito di e-commerce (litebox) per cui ho firmato la cessione a Jumpy/Fininvest. In seguito ho fatto partire un servizio di customer care online via chat (LiveSupport) di cui ho ceduto due anni dopo le quote a investitori privati, poi ho fatto insieme ad altri soci un management buyout di un ISP con 13 sedi in italia e 10.000 PMI clienti. Dopo aver ristrutturaro e riportato in utile la società ho ceduto le mie quote a soci privati.

In ultimo ho fondato Blogo, il network di blog verticali che raggiunge ormai 12 milioni di utenti unici mensili in quattro paesi e di cui sono il CEO. Nel 2007 abbiamo ceduto una prima quota di Blogo a Dada e nel 2008 una seconda tranche.

Nel tempo libero sto lavorando a un paio di progetti laterali: tipsandtrip.com – un taccuino di appunti di viaggio per iPhone – e dreamr.com – sapete che a marzo 2010 iPad è stata la cosa più sognata nel mondo?

Ho due bambini fighissimi, una fidanzata stupenda, una ex moglie e due gatti. Amo lo snowboard, la vela e giocare a Super Mario con i miei bimbi.

2) Potresti raccontarci qualcosa in più circa il tuo inizio, quando, per la prima volta, ti sei affacciato al mondo startup?

Nel 1994, avevo 21 anni e tanta passione per le auto d’epoca, le Mini Cooper in particolare.
Ho pensato con un amico che potesse essere interessante far qualcosa in quel settore. Abbiamo fondato Mini Mania: un negozio di accessori, preparazioni e restauro per Mini Cooper.

Dopo un paio di anni fatturavamo qualche centinaio di milioni di lire, avevamo clienti in 10 paesi del mondo e un gruppo di amici stupendo ma nel frattempo il mio interesse si era spostato sul web. Così abbiamo chiuso Mini Mania e sono partito con la seconda startup.

3) Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato lungo il tuo percorso da giovane founder ad imprenditore di successo?

La maggiore difficoltà è capire che si può sbagliare e che questo non è un problema. Far fallire un progetto è un’esperienza interessante e che accresce.

4) Quali gli errori più importanti che hai commesso e che potrebbe commettere un giovane startupper?

Ostinarsi con la propria idea di prodotto senza dare ascolto alle persone, fregarsene della critica costruttiva perché tanto “quel business lo conosco meglio io”.

5) Credi che rispetto a qualche anno fa, quando hai iniziato, qualcosa sia cambiato in Italia? Chi inizia oggi, è più o meno fortunato rispetto a prima?

Molto più fortunato di prima.

Facilità di accesso alle informazioni, tecnologie a basso costo (cloud computing e framework), ampie possibilità di networking online, telelavoro, forze lavoro nei paesi dell’est e in india. Un ecosistema particolarmente favorevole per la nascita di una startup.

6) Se tu ne avessi il potere, cosa cambieresti in Italia per agevolare e stimolare i giovani imprenditori?

Metterei un limite alle chiacchiere da bar in cui tanti giovani si perdono. E’ un problema sociale in italia: tanti che parlano e pochi che combinano qualcosa. Come seconda cosa obbligherei i giovani a lasciare casa entro i 20 anni, il modo giusto per non vivere sulle spalle dei genitori fino a 35 e per darsi da fare subito.

7) Quale è il tuo punto di vista circa la Banca Nazionale dell’Innovazione, proposta da Gianluca Dettori?

Tante belle idee, difficilmente realizzabili, la BNI non è la prima e non sarà l’ultima. Mancano gli imprenditori, mancano le vie di uscita e mancano di conseguenza i fondi di ventura.

8) Quali sono i consigli che ti senti di dare ai giovani che oggi decidono di fondare una startup?

Partite con qualcosa di semplice e buttatelo fuori sul mercato. Se non ci sono bug vuol dire che avete lanciato troppo tardi. Poi raccogliete i primi feedback degli utenti e continuate a iterare sul prodotto. E’ un ciclo continuo che permette di affinare la propria idea che al primo colpo difficilmente va a segno.

9) Quale è la tua posizione rispetto alla questione Silicon Valley, credi che oggi sia un passo dovuto quello di provare ad aprire la propria startup lì?


Assolutamente no. Si può partire ovunque e per arrivare a capire se il prodotto può avere un senso non serve andare in SV. Bastano qualche migliaio di euro e tanta voglia e passione. Poi, più avanti, può servire ma cerchiamo di non farci prendere troppo dal mito Silicon Valley.

10) Secondo te, quali sono le tre principali caratteristiche che deve avere un giovane che decide di fondare una startup in Italia?

Curiosità, tenacia e tanta voglia di sbattere la testa contro i muri.

11) Se oggi tu decidessi di fondare una startup, in che ambito punteresti?

Web e mobile apps perché con pochi euro si può partire. In alternativa se non parliamo di web mi piacerebbe lavorare su linee di oggetti personalizzati: oggetti cui la gente si appassiona e che diventano di culto (una borsa, una bici, un tavolo).



Grazie a Marco Magnocavallo!


Stefano Passatordi
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I Realize Lean Start-up Hack & Google Site Clinic



I Realize Lean Start-up Hack & Google Site Clinic
17 Nov 2010
presso Toolbox - Via Agostino da Montefeltro, 2
TORINO

http://www.irealize.eu

Anche quest’anno, in occasione della Global Entrepreneurship Week, I Realize organizza un evento, dedicato all’innovativo approccio imprenditoriale definito come Lean Start-up.

Build, Measure and Learn è il tema della giornata.

La giornata è strutturata con un panel in cui si discuteranno i concetti principali della Lean Start-up ed un Site Clinic realizzato in collaborazione con Google in cui testare sul campo quanto imparato, in pieno stile I Realize.

Nel pomeriggio gli imprenditori avranno invece la possibilità di partecipare a ”meeting one-to-one” con il team di Google Adwords al fine di comprendere come incrementare il ROI con una corretta campagna Adwords.

La registrazione è gratuita ed è possibile candidare la propria start-up per il Site Clinic o per un appuntamento con il team Adwords.
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martedì 2 novembre 2010

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From errors to lessons - 10 actions a startupper should avoid

Durante lo Startup Weekend a Roma, ho avuto il piacere e l'onore di poter parlare ai ragazzi e raccontare la mia esperienza da startupper.

Essendo un evento dedicato ai ragazzi che si stanno per approcciare al mondo startup, ho pensato che sarebbe stato interessante raccontare quali sono gli errori che, comunemente, si possono commettere da founder.


Il mio speech era intitolato:

From errors to lessons - 10 actions a startupper should avoid

Poche slide per raccontare la mia personale esperienza in merito e per far capire ai ragazzi che si può "scivolare" in qualsiasi momento..


Oggi, ho ricevuto una email da SlideShare in cui mi dicono che la mia presentazione è stata ritenuta di valore e sarà visualizzata nella loro home :)

"Hi stefanopassatordi,

Your presentation From errors to lessons - 10 actions a startupper should avoid is currently being featured on the SlideShare homepage by our editorial team.

We thank you for this terrific presentation, that has been chosen from amongst the thousands that are uploaded to SlideShare everday. "


Grazie a tutti!

Stefano Passatordi
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lunedì 1 novembre 2010

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Startup Weekend: I vincitori


Dopo tre giorni di evento, si è conclusa ieri l'edizione romana dello Startup Weekend.

Tutto è iniziato Venerdì scorso (29/10/10), quando oltre 80 ragazzi provenienti da tutta Italia, si sono incontrati all'Opificio Telecom, a Roma.

Dopo la presentazione delle idee, i partecipanti si sono divisi in 9 team per altrettanti progetti da implementare in poco più di 50 ore!

Tra Venerdì e Domenica, ci sono stati interventi di imprenditori, startupper, ed investitori che hanno contribuito con i loro speech ad aggiungere maggiore valore all'edizione romana dello Startup Weekend.

Dopo ore ed ore di duro lavoro, a ritmi elevati, ogni team ha prodotto una presentazione del proprio progetto e, in alcuni casi, anche un protitpo funzionante.

In 7 minuti, ogni "team leader" ha presentato la propria idea e mostrato il prototitpo alla giuria, la quale ha avuto a disposizione 2 minuti di domande per ogni presentazione.

Tutti i progetti erano meritevoli, ma, come in ogni competizione, non possono vincere tutti :)

Il primo posto è andato a QuickJobs, secondo a Mindigno e terzi, ex aequo, Qurami e Barcode Battle!

Complimenti a tutti ragazzi, appuntamento al prossimo Startup Weekend romano!

Un ringraziamento particolare va ad Augusto Coppola, Tugce Ergul e Clint Nelsen, grazie!

Ecco il video del pitch di Giuliano Iacobelli, vincitore con QuickJobs:




Stefano Passatordi



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giovedì 28 ottobre 2010

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YouStartUp chiede aiuto alla community!


Ciao ragazzi!

YouStartUp vi chiede un piccolo aiuto ;)


Purtroppo, solo ieri, questo blog è stato iscritto al "LIBERO Mobile Awards", nella categoria Web & Tech. Iniziando con forte ritardo rispetto agli altri partecipanti, siamo molto indietro...ma, con il vostro aiuto, possiamo ancora farcela!

Se questo blog vi piace, se vi è stato utile, se credete che meriti un piccolo riconoscimento..allora date il vostro "Mi piace/Like":




Vi ringrazio!

Inoltre, grazie alla piattaforma di Libero per Mobile, da ieri, questo blog è accessibile anche da mobile: http://youstartup.m.libero.it

Seguimi su Libero Mobile


Grazie di cuore a tutti!

Stefano Passatordi

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domenica 24 ottobre 2010

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Investitore SI, investitore NO?

Nelle ultime settimane, la domanda più frequente che ho ricevuto è stata se conviene o meno cercare un investitore, oppure se conviene andare avanti da soli, con le proprie forze. Credo che sia impossibile rispondere in maniera categorica con un “SI, conviene” oppure “NO, non conviene”, dipende da tanti fattori.

Premesso che questo argomento è stato già affrontato, in parte, in questo post, di qualche mese fa, adesso cercheremo di capire i vantaggi e gli svantaggi di avere un investitore.

Grazie ad internet, oggi è possibile fondare una startup che offre un servizio online, senza avere costi eccessivi. Se i founder sono due tecnici, possono sviluppare la piattaforma da soli, un dominio costa (esagerando) 20 euro all’anno, aprire la società ha un costo variabile che va dalle 300 sterline circa per una LTD, ai 3000 dollari per aprire una INC negli USA (forse anche meno), fino ai circa 10.000 euro per una SRL in Italia (non tutti da versare subito) [in merito: post1 e post2].

Insomma, se non volete aprire subito una società, con meno di 100 euro potete far partire la vostra startup WEB! (In merito vi consiglio di leggere questo post su thestartup.eu)

Una volta sviluppato il servizio, iniziate a promuoverlo...e se piace: BOOM!

Milioni di utenti, da tutto il mondo, ogni giorno accedono al vostro servizio e lo promuovono. Pochi mesi dopo, una grossa realtà del web vi contatta perchè ha deciso di acquisirvi, per la modica cifra di 10M di dollari!!!! Dopo la due diligence, firmate il contratto e diventate, di colpo, ricchi, famosi e con un lavoro da manager in una azienda famosa a livello mondiale.
Eh si, perchè, se non lo sapevate, quando una società acquisisce la vostra, non vi da i soldi e vi saluta..ma, come minimo, vi bloccherà due anni per lavorare per loro, dentro la vostra stessa società, per trasmettere tutto il vostro know-how ai loro tecnici.

Questo è il caso ideale...credo che ve ne siate già resi conto!


E’ il caso in cui i founder fanno tutto da soli, lo fanno bene, velocemente e monetizzano subito la loro idea..senza grossi intoppi. Un altro possibile finale, oltre l’acquisizione, potrebbe essere che le vendite del vostro servizio (magari con modello freemium) vanno talmente bene che fatturate milioni di dollari, in poco tempo.

In entrambi i casi parliamo di casi ideali, molto difficili da realizzare...ma, comunque, non impossibili!

Vediamo, invece, un caso medio: i founder non sono tecnici, è la prima volta che affrontano l’esperienza startup e...non sanno neanche da dove iniziare :)
In un caso come questo, assimilabile a quello in cui i founder sono tecnici, il primo problema è sicuramente quello economico.

Avete una idea, ci credete, per realizzarla dovete lavorarci tutto il giorno e tutti i giorni...come vi mantenete?

In questo caso, le soluzioni sono sempre le stesse:
- La famiglia vi supporta
- Fate un altro lavoro e solo la sera ed il fine settimana potete dedicarvi alla vostra startup (tanti hanno fatto così e con successo)
- Trovate qualcuno che vi finanzia
- Altre soluzioni fantasiose

Questo è sicuramente il principale motivo per cui una startup si affida e chiede aiuto ad un investitore!

Anche io, con Ibrii, per i primi mesi mi sono affidato alla famiglia ma, successivamente, ho provato a cercare (ed ho trovato) un investitore, perchè volevo crescere più velocemente e avere maggiori garanzie anche per il futuro.

In genere, per un novizio, come lo ero io, oltre al denaro, serve anche un altro importante aiuto..l’esperienza!

Vi consiglio di non sottovalutare mai questo fattore, perchè vi accorgerete troppo tardi di aver fatto degli errori che vi possono costare tanto, solo perchè inesperti e alle prime armi. Se leggete il libro Founders at Work, vi renderete conto che la maggior parte dei founder che hanno avuto successo, hanno prima lavorato per anni in altre aziende, hanno imparato e, solo dopo, hanno provato a fondare la propria startup.

Per quello che è stata la mia esperienza, posso dirvi che lo scotto di essere inesperti, prima o poi, lo pagherete. Chi non paga il dazio esperienza è perchè ha già lavorato per anni in un ambiente simile, quindi ha imparato a non commettere certi errori.

Il fattore esperienza è sicuramente un altro motivo per cui è importante avere un investitore che sia esperto del vostro mercato/settore, oltre a uno o più advisor che hanno già vissuto il vostro percorso.

Che si tratti di un angel, di un seed investor o di un grosso VC, in tutti i casi si tratta di persone che affidano a voi i loro soldi..per cui, è nel loro interesse aiutarvi e consigliarvi al meglio.

Il vostro compito sarà, allora, capire quali consigli seguire e quali scartare!

Non è detto che siano sempre consigli corretti...ma, saper capire quali seguire e quali scartare, è una capacità che si acquisisce solo con l’esperienza :)

Quando avete una startup, un elemento fondamentale per la vostra crescita è il network, ovvero la rete di conoscenze, amicizie e rapporti lavorativi e di business che riuscite a creare. Più il vostro network sarà ampio, potente e differenziato e più possibilità avete di risolvere prima e meglio i vostri problemi e di arrivare dove vi siete prefissi in partenza.

Questo è un altro ruolo importante dell’investitore, spesso un ruolo messo in secondo piano...erroneamente.

Oltre a darvi soldi e consigli, il vostro investitore, dovrebbe aiutarvi ad ampliare il vostro network e ad introdurvi alle persone giuste al momento giusto. Credo che, prima di scegliere un investitore piuttosto che un altro, sia giusto informarsi quale potrà esservi più utile dal punto di vista del networking...insomma, quale è quello più “agganciato”??

In base alla mia esperienza, questi sono i motivi principali per cui una startup potrebbe decidere di affidarsi ad un investitore:

- Soldi
- Esperienza/consigli
- Network

Ovviamente, però, tutto ha un prezzo! Un investitore non è il buon samaritano, anche lui è una persona che vive di business e se decide di investire nella vostra idea è perchè ci vede delle potenzialità nel futuro...ovvero, domani potrà recuperare N volte il suo investimento inziale (almeno questa è la speranza)!

Per cui, quando decidete di far entrare un investitore nella vostra società, è vero che all’improvviso il conto in banca aumenta..ma è anche vero che perdete, non solo quote della società (dipende da come viene fatto l’investimento, ma, in ogni caso, se le cose vanno bene, prima o dopo dovrete cedere delle azioni), ma anche potere decisionale.

Dopo aver firmato il contratto di investimento, non sarete più solo voi founder a decidere le sorti della startup, ma anche il vostro investitore avrà voce in capitolo.
Quindi, prendere dei finanziamenti da un lato aumenta le vostre possibilità di successo ma, dall’altro, vi priva della libertà decisionale.

Per mitigare questo effetto “collaterale”, vi consiglio, prima di tutto, di capire bene chi è il vostro investitore (è una persona con cui si può discutere oppure è un “dittatore”?), di fare molta attenzione a quello che firmate (term sheet e contratto di investimento, opppure convertible note), di negoziare sempre (non dite mai sempre “SI”, solo perchè loro vi danno i soldi), di dimostrare con le parole e con i fatti che voi siete gli imprenditori e che siete in grado di gestire le sorti della VOSTRA startup.

Insomma, fatevi rispettare sin dal primo giorno!

In genere, dopo aver trovato un accordo, il rapporto founder – investitore/i dovrebbe essere un rapporto disteso, di collaborazione e di sforzi comuni. In fondo, entrambi avete lo stesso obiettivo: guadagnare tanto con la vostra idea!

Ad oggi, posso tranquillamente affermare che in Gianluca Dettori e in tutto il gruppo di dPixel, ho trovato quella complicità e quel rispetto reciproco che servono per portare avanti, in tranquillità, la propria startup.

Spero di avervi dato un quadro completo sulla questione “investitore SI, investitore NO”.

Prima di prendere qualsiasi decisione affrettata, riflettete per capire se avete tutte le carte per giocare da soli la partita o se vi serve un alleato!

A presto, Stefano Passatordi
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