martedì 28 dicembre 2010

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YouStartUp: i primi 9 mesi



Prima di augurarvi un buon 2011, qualche numero circa i primi 9 mesi di vita di questo blog:

- 52 post totali -> quasi 6 al mese

- oltre 9000 accessi unici. Dopo l'Italia, il secondo paese sono gli USA, in particolare la California.



- 2 dicembre il giorno con maggiori accessi unici (oltre 300) dovuti al post: "Startup: la dura verità!"

- I 5 post più letti in assoluto:

1. Startup: la dura verità! - 589 letture

2. L'esperienza di un imprenditore italiano che ha tanto da insegnare: Augusto Coppola - 512 letture

3. Un imprenditore italiano che si è affermato anche in Silicon Valley: Fabrizio Capobianco - 509 letture

4. SRL, LTD o INC ? Quale società per la vostra startup? - 487 letture

5. Imparare dall’esperienza: 10 errori da non commettere (di nuovo) - 476 letture

- Facebook si conferma come maggiore sorgente di accessi (42%), seguito da accessi diretti (21%), google (14%). Il restante 23% da vari altri blog e siti.

- Secondo feedburner, 148 persone leggono il blog direttamente nel loro feed rss

- Il browser più usato per leggere il blog è Firefox (42%), seguito da Chrome (29%), Safari (13%). Il restante 16% diviso tra altri browser.

Questi numeri per me sono un successo, grazie a tutti!




BUON ANNO A TUTTI!

Stefano Passatordi
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venerdì 24 dicembre 2010

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Buon Natale a tutti!


Auguri di Buon Natale e buone feste a tutti!


Stefano Passatordi
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lunedì 20 dicembre 2010

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Classi di azioni e dintorni, interviene l'esperto: Filippo Beretta


Il 21 Novembre ho postato sul tema del Term Sheet.
A seguito del post, molti mi hanno scritto chiedendo chiarimenti ulteriori specialmente sulle clausole e sui tipi di azioni.

Come già avevo fatto lo scorso Luglio, ho chiesto all’amico Filippo Beretta di aiutarmi a dare una risposta precisa e strutturata.Filippo è il fiduciario in USA di Ibrii e da quasi un decennio vive e lavora a Boston, ed è il fondatore di Motu Novu.

In questo suo post, come già l’altra volta, Filippo correggerà alcune mie inesattezze (non voletemene, provo a fare l’imprenditore, non il commercialista!) e approfondirà il discorso.

Ecco:

-- Su richiesta di Stefano, che ringrazio per l’ospitalità sul suo utile blog, intervengo questa volta sui seguenti temi:

1) tipologie di azioni e generale differenza tra common stock e preferred stock;
2) diritti patrimoniali;

3) diritti di governance;

4) classi di azioni.


Sorvolo le presentazioni, potete trovare tutto sul mio profilo.
Segnalo per trasparenza: la mia società di advisory, Motu Novu, offre tra l’altro servizi fiduciari (leggi: apertura e gestione amministrativa, legale, contabile, fiscale di società) in USA, e si rivolge sia a startup tecnologiche che a PMI industriali che desiderino aprire/gestire una sussidiaria commerciale in america. Sono anche l'entrepreneur in residence di DPixel e uno dei finanziatori (indiretti) di Ibrii.

1. Common e Preferred

La proprietà e il controllo delle società per azioni (es. SpA in Italia o Inc in USA) è esercitato attraverso strumenti finanziari chiamati “azioni” (“shares”).
Nella loro totalità, tutte le azioni di una società ne rappresentano il capitale (“stock capital”). Per questo, quando ci si riferisce ad azioni in modo collettivo, talvolta si usa il termine “stock”, come abbreviazione di “shares of stock capital”.
Le azioni sono strumenti finanziari che cartolarizzano alcuni diritti, ovvero attribuiscono questi diritti non ad uno dei soci direttamente in quanto tale, ma indirettamente in quanto possessore delle azioni, e spesso in misura proporzionale al numero di azioni possedute. In questo modo, per trasferire i diritti basta trasferire le azioni. Una società può avere diverse tipologie di azioni, dette “classi”, ciascuna con differenti diritti. Il tipo più semplice di azione assegna 1 diritto di proprietà e 1 diritto di voto per ciascuna azione posseduta. Il socio avrà dunque diritti di proprietà e di voto proporzionali al numero di azioni possedute.

Se un’azienda ha emesso 100 azioni di questo tipo, e il socio Stefano ne possiede 40, si può dire che Stefano possiede il 40% dell’azienda e vota per il 40% nell’assemblea dei soci. Questo tipo “base” di azioni è tipicamente detto “azioni ordinarie” o “common stock”.

Azioni con diritti ulteriori rispetto a quelli delle azioni ordinarie sono dette “azioni privilegiate” (privilegiate nel senso che hanno diritti diversi, e tipicamente più diritti, ovvero hanno dei privilegi, rispetto a quelle ordinarie o common) o anche “preferred stock”.

Da notare che le azioni privilegiate possono in alcuni casi avere anche meno diritti di quelle common. Caso tipico: le azioni privilegiate di società quotate, che hanno diritto a dividendi superiori rispetto alle azioni ordinarie, ma non hanno diritto di voto.

2. Diritti patrimoniali

Per “diritti patrimoniali” si intendono tutti quei diritti – associabili ad una classe di azioni – che attribuiscono un benefici economico diretto, attuale o potenziale.
Propongo qui una lista dei principali, descrivendo soltanto quelli non già descritti da Stefano nel suo post sul Term Sheet.

Diritto di proprietà / Property right.

Attribuisce il diritto fondamentale di proprietà (pro-quota) della società. Di norma, la % di proprietà (“fractional ownership”) di una società da parte di un socio è direttamente proporzionale al numero di azioni posseduta dal quel socio.
Tuttavia, in alcune giurisdizioni, è possibile assegnare una quota più (o meno) che proporzionale.

Diritto di prelazione / Right of first refusal.

Rimando alla descrizione fatta da Stefano nel suo post, aggiungendo solo che questo diritto di norma non è incapsulato in una classe di azioni, ma deciso tra i soci con un patto parasociale. Questo per evitare che sia “trasferibile” come lo sono le azioni, mantenendo il diritto esclusivamente tra i soci originali.

• Diritto di partecipazione agli utili / Dividend right.

Per una startup allo sbaraglio parlare di utili e di dividendi può far sorridere, ma almeno per alcune startup il giorno verrà in cui l’azienda potrà pagare dei dividendi, anche magari soltanto come strumento per un’operazione semi-complessa di ricapitalizzazione.
Il dividend right determina se e in quale misura il possessore di una azione può ottenere dei dividendi, qualora ve ne siano.
Il caso tipico: azioni privilegiate i cui possessori hanno diritto preferenziale ai dividendi, se ve ne sono e fino ad una certa misura (es. 5% del valore di mercato dell’azione) rispetto ai possessori di azioni ordinarie.

Attenzione: il tema è rilevante anche per gli startupper perchè talvolta il dividend right è usato in modo surrettizio come un tipo di liquidation preference (vedi sotto.)

• Accordi di co-vendita / Tag-along e drag-along.

Rimando al post di Stefano.

Preferenza di liquidità / Liquidation preference.

Rimando al post di Stefano.

Diritto di riscatto / Redemption right.

Rimando al post di Stefano.

Diritto di registrazione / Registration right.

Nota: questo diritto è rilevante solo per le società di diritto americano, ma per queste può avere un effetto imporantante, quindi lo includo.

Il diritto di registrazione consente il possessore (tipicamente: il VC) di costringere l’azienda a registrare le proprie azioni con la Security and Exchange Commission (SEC). La registrazione è necessaria per l’initial public offering (IPO) e anche in alcuni casi di compravendita. Poichè può costare facilemente $1-$2m, l’azienda potrebbe voler far pagare al VC: “vuoi fare l’IPO a queste condizioni? Bene, paga tu”.
Il VC dunque si premunisce e inserisce questo diritto nella classe di azioni privilegiate in suo possesso sin dall’inizio.

Accordo di non diluzione / Anti-dilution provision.

Questo è senz’altro, insieme a liquidation preference (vedi sopra) uno dei due diritti più dibattuti (talvolta in modo molto acceso) tra imprenditori e investitori in sede di negoziazione del term sheet e conseguente definizione delle classi di azioni.

Incidentalmente, si tratta anche di un tema dalle meccaniche talvolta abbastanza complesse, che forse (se Stefano mi ospiterà di nuovo) meriterebbe un post a parte. ["Filippo puoi già metterlo in agenda! ;) "]

In estrema sintesi, e senza entrare nel merito delle varie tipologie di anti-dilution (ce ne sono molte): il possessore di azioni con anti-dilution ha diritto di ottenere, in caso di down round, altre azioni a prezzo scontato o gratuito, cosi che non si diluisca.

Faccio un esempio, il più semplice. L’azienda Obroo ha emesso il primo round a $10 per azione. L’investitore DBit ha 100 azioni privilegiate, con anti dilution di tipo full-ratchet, che gli danno il 40% dell’azienda.
Se nel round successivo le cose non sono andate troppo bene, e il prezzo di emissione è di $5 per azione, l’investitore DBit avrà diritto ad ottenere gratis tante azioni quante ne avrebbe avute se il prezzo del round precedente fosse anch’esso stato $5.

Leggi: se l’equity story dell’azienda funziona e il prezzo di emissione nei vari round segue una funzione monotona crescente, l’anti-dilution non viene mai esercitata. Se qualcosa va storto, l’investitore è protetto appunto, contro la diluzione, a spese dei possessori di classi di azioni meno privilegiate o common (tipicamente gli imprenditori.)

Diritto di conversione / Conversion right.

Pressochè tutte le azioni privilegiate includono il diritto di conversione, a richiesta del possessore, in un uguale numero di azioni common. Questo diritto è tipicamente esercitato in caso di cessione o IPO, quando l’acquirente / il mercato preferisce aziende con un solo tipo di azioni.

3. Diritti di governance

• Diritto di voto / Voting right.

Per ovvio, ma quasi tutte le tipologie di azioni hanno dei diritti di voto.
Il caso più semplice è un’azione common con 1 diritto di voto per azione. In assemblea, hai tanti voti quante azioni possiedi. Tuttavia, si possono creare classi di azioni con molteplici diritti di voto, o con nessuno. Il primo caso è talvolta usato per fare “founders shares” che mantengono il controllo dell’assemblea anche in caso di forte diluizione dovuta a successivi e ingenti round di finanziamento. Questo è possibile solo se l’equity story “gira davvero”, e tipicamente non è accettato dagli investitori istituzionali.
Il secondo caso, già menzionato sopra, è quello di azioni privilegiate con forti diritti patrimoniali (specie in tema di dividendi) ma senza diritto di voto.

• Diritto di partecipazione al consiglio di amministrazione / Board seat(s).

Rimando al post di Stefano.

• Information rights.

Rimando al post di Stefano.

• Veto rights.

Rimando al post di Stefano.

4. Classi di azioni

Come scritto sopra, una società può avere diverse tipologie di azioni, dette “classi”, ciascuna con differenti diritti.
Tipicamente, i fondatori ricevono azioni di tipo common, anche se talvolta queste hanno diritti di voto allargati e/o altre privilegi, e in questo caso vengono spesso chiamate founders’ shares. Eventuali round successivi di raccolta di capitale completati con l’emissione di azioni spesso utilizzano classi di azioni privilegiate.

Queste nuove classi di azioni sono tipicamente indicate con lettere maiuscole progressive, dalla A in avanti, chiamate dunque, per esempio: “Series A”, “Series B”, ecc. dove sta per “serie o gruppo di azioni emesse”.

Di norma, le azioni di series successive tendono ad avere prezzo di emissione più alto (a meno di un down round, che fa scattare l’anti-dilution, vedi sopra) e diritti più ampi, specie quelli patrimoniali, rispetto alle azioni di series precedenti. --


Spero di aver contribuito (sebbene in misura del tutto generale) a chiarire un pochino la questione.

Invito chi abbia ulteriori dubbi o domande a contattarmi direttamente.

Filippo Beretta Founder, Motu Novu
Email: fiduciary at motu novu dot com


Grazie Filippo!

Stefano Passatordi
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domenica 12 dicembre 2010

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Un imprenditore italiano che si è affermato anche in Silicon Valley: Fabrizio Capobianco

Quanti giovani startupper italiani sognano di andare in California e portare la propria startup a livelli internazionali?! In realtà, quanti ci hanno provato e quanti ci sono davvero riusciti?!

Oggi pubblico l'intervista ad un imprenditore che è diventato un esempio per tutti coloro che partono dall'Italia e sognano di affermarsi in California: Fabrizio Capobianco.

Quando ho iniziato a fare lo "startapparo", in tanti mi hanno parlato di questo imprenditore italiano che si era affermato in Silicon Valley con una azienda chiamata Funambol.

A qualsiasi evento andassi, sentivo sempre frasi del tipo: "Se tutti fossero bravi come Capobianco", "Dovete fare come ha fatto Capobianco", "Fabrizio Capobianco come esempio" e frasi simili.

Insomma, non lo conoscevo ma, per me e tanti altri come me, era già diventato un esempio da seguire.

Quando, finalmente, sono andato in Silicon Valley, gli scrissi per chiedergli di incontrarlo. Così ho avuto l'onore ed il piacere di stringere la mano a Fabrizio Capobianco!

Durante il nostro incontro, mentre lui parlava e raccontava la sua storia, io ho pensato due cose:

1. Tutto ciò che mi avevano detto su di lui era vero. Esiste! Non era una leggenda metropolitana.

2. Quanto sarebbe bello poter arrivare dove è arrivato lui e poter raccontare, un giorno, la mia storia con tanta fierezza con cui Fabrizio ha raccontato la sua a me.

Che dire...ascoltate con attenzione le parole di Fabrizio!


Prima parte



Seconda parte



Ancora grazie Fabrizio!
Un grande in bocca al lupo per la tua nuova avventura.

Grazie,
Stefano Passatordi
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giovedì 2 dicembre 2010

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Startup: la dura verità!

Sembra che ultimamente in Italia sia esplosa una nuova moda che si chiama “startup”.

Soprattutto da parte dei giovanissimi italiani sta nascendo e sta crescendo sempre più un importante interesse nei confronti di un mondo, fino a poco tempo fa, quasi del tutto inesistente in Italia.

Sta scoppiando, anche in Italia, la “moda” delle startup. Così, come avviene in alcune zone degli Stati Uniti, anche in Italia, i giovani iniziano a pensare che dopo il liceo o dopo l’università (anche mentre), grazie ad internet, c’è la possibilità di creare qualcosa di nuovo.

La possibilità di creare lavoro piuttosto che cercarlo.

Sicuramente un dato positivo, segno che, anche in questo paese, qualcosa inizia a cambiare.

Meglio tardi che mai!

Così, negli ultimi mesi, sono nati nuovi siti online dedicati al mondo delle startup, nuovi blog (vedi questo), nuovi eventi, nuovi gruppi dedicati (soprattutto su Facebook).
Insomma, ad oggi, se un giovane dovesse decidere di intraprendere il percorso della startup, saprebbe da dove iniziare.
In Italia, ormai, c'è un numero discreto di startup, di gente con esperienza, di investitori, di eventi e di punti informativi.

Non ci sono più scuse, oggi, anche in Italia, puoi fondare la tua startup! WOW!!!!

Quello che mi capita spesso di leggere, sui gruppi su Facebook oppure sui vari blog degli addetti ai lavori, sono essenzialmente due correnti di pensiero:

1. In Italia non si può fare niente per mille motivi, mentre in California è tutto più semplice.
2. In Italia è più difficile, ma non è vero che è impossibile fare una startup.

Il mondo è bello perchè è vario, ognuno ha un proprio pensiero e, giustamente, lo condivide con il resto del mondo per confrontarsi. Entrambe le correnti di pensiero vanno rispettate.
Ognuno adduce le proprie motivazioni e riporta le proprie esperienze per sostenere la sua tesi.

Confesso, che, a volte, leggendo alcuni post e/o commenti, in merito al mondo startup in generale, mi viene da sorridere. Effettuando una veloce ricerca sugli autori dei vari post/commenti, viene fuori (almeno da quello che Google e tutti i sistemi social possono dire) che queste persone non hanno mai neanche provato a fare una startup.

Insomma, un pò come quando vai al bar lunedì mattina e tutti sono esperti allenatori di calcio.

Al contrario, apprezzo tantissimo tutti quegli interventi di persone che esprimono giudizi o fanno paragoni, portando esempi concreti e, soprattutto, di esperienza diretta e non sentita da amici di amici.

A questo punto, per quel poco che può valere, vorrei fare alcune considerazioni su quello che davvero vuol dire fare una startup. Ovviamente, tutte le considerazioni che farò sono legate alla mia personalissima esperienza reale (quindi non sono verità assolute!) e, quando possibile, userò i numeri. La matematica non è una opinione!

Il messaggio che passa spesso è: “Fare startup è bello, stimolante, una figata assurda! Può regalarti emozioni e soddisfazioni uniche.”

Sono il primo a pensare questo sul fare startup e lo sottoscrivo in toto.
Credo , però, che fino ad ora nessuno abbia messo il giusto accento sul fatto che fare startup non è un gioco! E’ difficile, non è per tutti, ti assorbe completamente, ci vuole tempo e pazienza, richiede tantissimi sacrifici.

Come promesso, analizziamo insieme le difficoltà con elmenti concreti e tangibili. Tutte le considerazioni di seguito sono generali e, tranne nei casi in cui eplicitato, valgono, secondo me, sia in Italia che nel resto del mondo.

L’idea, per quanto possa sembrare strano, è la parte più facile. Se decidi di fare una startup, in teoria, vuol dire che hai già l’idea in cui credi fermamente. Se sia valida o meno è un altro discorso, lo dirà il mercato.

Il primo scoglio da affrontare è la composizione del team (se pensate di fare tutto da soli è n volte più difficile.) Trovare persone con cui vai d’accordo, che condividono la tua vision, che sono disposti a fare sacrifici con te e che hanno la stessa fiducia che hai tu nella tua idea...NON E’ FACILE!

Lo sto vivendo sulla mia pelle, sto cercando ragazzi in gamba da far entrare nel team di Ibrii...ma è dura!

Per definizione, una startup non ha soldi e non può dare certezze. Quindi, quello che puoi offrire sono equity, tante speranze ed entusiasmo. In casi fortunatissimi, uno stipendio che rappresenta il minimo sindacale. In queste condizioni, soprattutto in Italia, è difficilissimo trovare persone disposte a seguirti..per ovvi motivi.

Bisogna anche considerare che l’età è un fattore importantissimo, più ti rivolgi a persone adulte e più è difficile che ti seguano. Rispetto ad un 20enne cambiano le prospettive, lo stile di vita, cambia tutto. In California, per quella che è stata la mia breve esperienza, è comuque difficile, ma hai delle possibilità superiori rispetto all’Italia.
Lì di 20enni che hanno voglia di fare startup ce ne sono tantissimi, grazie al fondamentale ruolo che svolgono i college e le università nel creare la mentalità imprenditoriale giusta.

Se sopravvivete alla questione team, arriva il lato economico. Come vi mantenete?

In merito, devo levarmi qualche sassolino dalla scarpa. Troppo spesso ho letto nelle varie discussioni frasi del tipo: “Che ci vuole, bastano poche migliaia di euro e fai la startup”.

La mia domanda è: “Ma state scherzando?Dove vivete?”

Quando leggo queste cose, mi viene da pensare che:

1. Chi le scrive non ha mai provato a fare una startup e fa un altro lavoro con posto fisso. Quando ha tempo esprime la sua opinione in merito.

2. Chi scrive ha dimenticato gli inizi, oppure, ha avuto un inizio facile perchè i soldi già li aveva.

3. Scrivono per scherzare.

Senza considerare l’opzione “lavoro già e nel weekend o la sera mi dedico alla mia startup”, consideriamo chi, come me, ha deciso di dedicare anima e corpo al proprio progetto.
In questo caso, bisogna considerare che da qualche parte dovrai pur prendere il denaro per sopravvivere.
Per quanto mi riguarda, mi posso ritenere molto fortunato. Per i primi mesi la mia famiglia mi ha sostenuto e subito dopo è subentrato l’investitore. Non tutti sono così fortunati però.

Non considerando il caso in cui si vive a casa con la famiglia, la mia domanda è: “Dove si prendono i soldi per portare avanti il progetto e poter sopravvivere? (attenzione, ho usato il termine sopravvivere...)”

Quando lanciate una startup, il tempo minimo che dovete considerare affinchè qualcosa di buono possa accadere sono 8/12 mesi, anche questo caso fortunato. Se non siete soli, ma siete un team, il problema è amplificato. Allora, è ancora vero che bastano poche migliaia di euro?!

Secondo me, la frase corretta è:
Grazie ad internet e alle nuove tecnologie, se vuoi lanciare una startup WEB, serve un investimento molto inferiore rispetto alle aziende classiche. SE hai qualche migliaia di euro da investire, puoi PROVARE a metter su la tua starup”.

La questione economica è la prima causa per cui tanti validi progetti non partono o falliscono dopo poco.
Per questo motivo, in California esistono incubatori che non danno solo spazio e contatti, ma anche denaro per far sopravvivere il team.

Evidentemente, Paul Graham, non ha pensato “Tanto ci vogliono poche migliaia di dollari, che ci vuole!?” ma ha pensato “Sono poche migliaia di dollari, però servono!”.

Anche da questo punto di vista, in Italia è più difficile. Molto probabilmente sbaglio, ma non conosco incubatori italiani che ti finanziano “poche migliaia di euro” solo per sviluppare la tua idea e poi...come va va. Conosco incubatori che ti offrono spazi a costi ridotti e contatti. Meglio di niente direi! In California esistono realtà come Ycombinator, TechStars, fbFund e altri ancora.

Se risolvete anche la questione economica, siete a buon punto. Secondo me, avete superato le difficoltà maggiori. Ma non rilassatevi troppo, dovete ancora fare i conti con il prodotto, il mercato, altri investitori e gestione della società.
Queste parti le evito, ci vorrebbe troppo tempo e spazio per parlarne seriamente.

Arrivati a questo punto, siete ancora convinti di voler fare una startup?
Se ancora ci credete, continuate a leggere...

Adesso vorrei sfatare un mito: la California.

Premesso che, secondo me, è vero che è più facile fare una startup in California rispetto all’Italia, è vero anche che non è proprio un gioco da ragazzi.

Sul fatto che sia più facile fare una startup in California rispetto all’Italia, credo che sia un dato oggettivo dovuto ad aspetti socio-culturali differenti. Per farvi capire di cosa parlo, vi faccio un piccolo esempio. In questo post e poi anche qui, un finanziamento di oltre $1M di dollari viene ritenuto un seed. In Italia, il seed, arriva fino a max 250k euro (ma proprio esagerando!).
Non voglio neanche provare a mettere a paragone la quantità di equity che chiedono in Italia rispetto alla California...

Questo dato deve servire per farvi capire che sono due mondi completamente diversi, con scale così diverse da renderli non paragonabili.

Veniamo adesso ad un aspetto importantissimo. Si parla sempre e solo dei casi di successo, vedi Facebook, Twitter e ancor prima Google. Perchè non si parla mai dei casi di fallimento? Perchè non si dice che anche in California, per ogni startup che ha successo ce ne sono altre n che muoiono? Questo cosa vuol dire?!..che anche in California non è facile!
Non è detto che basti andare lì per avere successo, non è detto che basta un post su Techcrunch per diventare la startup del momento.

In merito a questo aspetto, vorrei analizzare con voi i dati presi da qui.

Su un totale di 476 startup incubate, abbiamo:

- 20 con exit, di cui il 99% appartenenti a Ycombinator
- 27 sono fallite
- Le restanti 429 sopravvivono grazie a “piccoli” seed o investimenti di varia grandezza.

In ogni caso, quante startup di queste sono davvero conosciute???!!!

Quello che viene fuori da questo spaccato californiano, che esclude i grossi VCs, è che, mediamente, in California il 4% delle startup arriva ad una exit, poco più del 5% muore, il restante 90% sopravvive (sarebbe interessante sapere quanto tempo passa in media prima di fallire o avere una exit).

E’ importantissimo sottolineare che parliamo di startup che hanno ottenuto un finanziamento.

Se dovessimo considerare tutte le startup in assoluto che nascono in California, credo che la % di quelle che falliscono sia molto ma molto superiore.

Per concludere, fare una startup è una sfida che, se vinta, credo che possa regalare emozioni e soddisfazioni senza pari, ma il percorso è molto difficile, in salita. Che tu sia in Italia o in California, varia solo la pendenza, da nessuna parte nel mondo fare impresa è una passeggiata e, soprattutto, non c’è posto sulla terra dove tu possa partire senza avere anche poche migliaia di euro da investire.

Grazie,
Stefano Passatordi
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