Dopo Marco Magnocavallo, vi presento l’intervista ad un imprenditore che molti di voi già conosceranno di persona, soprattutto gli startupper di Roma: Augusto Coppola, CEO di Eris4.
Permettetemi di spendere due parole su Augusto, prima di passare all’intervista.
Conosco Augusto Coppola, personalmente, da poco tempo, meno di un anno, ma sento di poter affermare che Augusto dovrebbe essere preso come esempio da tutti i giovani imprenditori. Me per primo.
Sono sicuro che la maggior parte di voi, non sa che Augusto ha alle spalle una exit che potrei definire “clamorosa” (60X come leggerete nell’intervista).
In pochi sanno questo perchè Augusto, oltre ad essere un gran lavoratore, è una persona umile. Uno di quelli che pensa ai fatti più che alle parole.
Tutte caratteristiche che un giovane imprenditore dovrebbe avere, secondo me.
Ho chiesto ad Augusto di sfruttare questa intervista per trasmettere qualcosa a noi giovani imprenditori. Per farci capire gli errori che si possono commettere e quale dovrebbe essere lo spirito giusto per portare una startup a livello di azienda.
Il mio consiglio è di leggere con attenzione le sue parole e farne tesoro.
1) Ciao Augusto, anche se nell’ambiente di noi startupper sei già conosciuto, vuoi presentarti e dirci chi sei e cosa fai?
Sono un imprenditore e manager con un focus sull’execution. Ho fatto parte del team di founders di due startup: Smarten Software ed ERIS4. Ho speso una parte consistente degli ultimi 15 anni a presentare le mie startup a clienti, partner ed investitori in molti paesi europei, in America, Asia ed Africa. Ultimamente ho iniziato ad essere maggiormente attivo nelle iniziative per la nuova imprenditoria: faccio parte della governance del chapter italiano di BAIA (www.baia-network.it), cerco di dare una mano alle startup italiane fornendo consigli e contatti, sono presente a molti eventi di networking del settore, vado in giro a tenere inspirational speech :) e, infine, ho contribuito alla creazione di Innovation Lab (http://innovationlab.dia.uniroma3.it), un’iniziativa che ambisce ad insegnare ai giovani universitari come sia possibile fare una startup di interesse per i fondi di Venture Capital internazionali. Nel tempo libero amo stare in famiglia, i piacere conviviali, la conversazione brillante e le lunghe passeggiate.
2) Potresti raccontarci qualcosa in più circa il tuo inizio, quando, per la prima volta, ti sei affacciato al mondo startup?
Dopo un’esperienza in UK sono tornato in Italia nel 1997 come responsabile di business unit di una dinamica software factory romana. Dopo pochi mesi, il proprietario di questa società mi chiese di entrare a far parte di un progetto di startup nel quale, con il contributo anche di altri colleghi, avremmo fatto confluire le idee che erano maturate in azienda su come utilizzare le nuove tecnologie per progettare sistemi di Customer Care & Billing innovativi. All’inizio rimasi molto perplesso: non sapevo cosa fosse una startup, non mi era chiaro cosa questo avrebbe comportato e non avevo mai lavorato nello sviluppo di prodotti software, ma solo in progetti di system integration. Inoltre in quel momento avrei potuto guadagnare molto di più se avessi lasciato l’azienda e fossi andato a lavorare da qualche altra parte. Fortunatamente alla fine accettai la scommessa e, pur con molti momenti di dubbio e anche di serrato confronto interno al team, riuscimmo in circa tre anni ad ottenere dei risultati che credo siano di assoluto interesse ancor oggi: chiudemmo importanti contratti con clienti di assoluto prestigio, aprimmo sedi a Londra, Parigi, Vienna, Dubai, Kuala Lumpur e negli States e alla fine vendemmo l’azienda ad un importante gruppo fornendo ai nostri investitori un ritorno di oltre 60 volte l’investimento iniziale.
3) Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato lungo il tuo percorso?
All’inizio la paura del futuro. Sono cresciuto, come molti altri della mia generazione, nella cultura del posto fisso. E’ una cultura che implicitamente demanda ad altri (chi ci dà lavoro e ai politici) il compito di scrutare il mercato e scegliere per noi che, nella migliore delle ipotesi, siamo solamente esecutori di strategie individuate da altri. Da questo punto di vista anche la cura della nostra professionalità viene demandata ad altri: molte volte non sarà affatto necessario chiedersi se le esperienze che stiamo maturando hanno un qualche significato professionale, ma solamente se sono funzionali allo sviluppo dell’azienda che ci fornisce il posto (pensa, ad esempio, ai tanti che fanno carriera semplicemente gestendo gli aspetti “politici” dentro una grande azienda). Ancora oggi, dopo molti anni di imprenditorialità, questo “imprinting” non mi lascia, e sono sempre dubbioso sulle mie capacità di affrontare il futuro e di intraprendere dei percorsi professionali di valore. Il secondo ostacolo è stato la mancanza di una preparazione anche solo teorica di cosa significhi fare impresa che né l’università, né le esperienze lavorative, né, infine, la società in cui vivevo mi avevano fornito. Tale carenza mi ha portato a fare diversi errori come, solo a titolo di esempio, quello di pensare che la qualità dell’execution fosse limitata alla capacità di realizzare in modo compiuto ed economicamente efficiente l’idea tecnica alla base della startup. Non è così. La qualità dell’execution è legata alla capacità di costruire un’azienda efficiente, in cui, ad esempio, gli aspetti tecnici siano la piattaforma sopra la quale quelli commerciali possano funzionare generando i flussi di cassa necessari a remunerare gli investitori, a premiare chi ci lavora e ad auto-finanziare nel tempo l’evoluzione dell’azienda stessa. Nessuna idea ha una validità che dura per sempre anzi, molto più spesso, la validità di un’idea non dura neanche il tempo della sua realizzazione.
4) Quali gli errori più importanti che hai commesso e che potrebbe commettere un giovane startupper?
Ho commesso così tanti errori che non credo tu abbia lo spazio blog sufficiente per darne conto. Un aspetto di cui sono orgoglioso, però, è che tutti gli errori commessi li ho sempre pagati, e senza sconti, in prima persona. Ci tengo a fare questa precisazione perché credo che, prima di ogni altro discorso, un giovane startupper debba essere cosciente che inevitabilmente farà diversi errori e molti di questi, con il senno del poi, saranno così solarmente stupidi da far sentire chi li ha commessi un perfetto idiota. Alcuni errori saranno gravi, di altri ci vergogneremo, altri ancora li dimenticheremo dopo un po’, ma in ogni caso è fondamentale che lo startupper si chieda se sia realmente pronto ad accettare sempre, personalmente e a schiena diritta, tutte le conseguenze delle proprie azioni. Se non lo è, consiglio di lasciar perdere: la capacità di imparare dai propri errori è direttamente proporzionale alla nostra capacità di riconoscerli ed accettarli come tali, senza cercare puerili giustificazioni. Per rispondere alla domanda: ritengo che due degli errori che ho commesso siano abbastanza comuni: il primo è relativo alla mancanza di disciplina nell’analisi del mercato, il secondo, invece, nella mancanza di disciplina nella gestione del team. Credo inoltre che entrambi questi errori abbiano una comune radice nella presunzione. Provo a spiegarmi: cominciamo dal primo errore. Sia nella prima che nella seconda startup, siamo partiti con un’idea molto precisa del prodotto che avremmo offerto al mercato, di quali sarebbero stati i suoi elementi di forza, quali problemi dei nostri clienti avremmo risolto e, ovviamente, di chi fossero i nostri clienti. Purtroppo però tali assunzioni erano del tutto erronee. Di fatto, in entrambe le startup il modo in cui i nostri clienti usavano il prodotto, i motivi per cui lo facevano e anche chi fossero realmente i nostri clienti erano tutti elementi che avrebbero dovuto sorprenderci non poco se solamente avessimo avuto una disciplina di raccolta ed interpretazione dei dati che non fosse superficiale. Il motivo per cui l’errore fu reiterato nella seconda startup fu molto semplice: il successo della prima, dovuto in gran parte all’aver indovinato la vision, cioè di aver capito quale evoluzione era in atto sul mercato, mi rese talmente arrogante da non capire bene cosa fosse realmente successo e la mancanza di una disciplina di analisi rese più facile crogiolarmi nella mia sciocca vanità Solamente quando nella seconda startup, che si è chiusa senza alcun ritorno tangibile per gli investitori, mi sono dovuto confrontare con i miei errori allora ho visto con chiarezza che lo stesso pattern si era instanziato due volte e che, in quest’ultima occasione, i messaggi ricevuti dal mercato non solo indicavano che il prodotto non era pienamente centrato sulle esigenze dei clienti, ma che il mercato stesso stava cambiando in una direzione che non era quella prevista dalla nostra vision. Per quanto riguarda, invece, il secondo errore si deve tener presente che nella prima startup il team dei founders non era stato una mia scelta, ma quella del CEO. Io fui responsabile solo della formazione del team dei miei collaboratori. Dopo qualche tempo notai che mentre nel team dei founders c’erano dei contrasti interni, a volte anche aspri, tali contrasti erano del tutto assenti nel team dei miei collaboratori. Ancora una volta il successo della startup e, al suo interno, il successo del mio team mi rese presuntuoso: pensai che al momento di fondare una nuova startup avrei scelto io il team dei founders e che non avrei certamente fatto gli stessi errori che avevo visto nel team scelto dal CEO della prima. Effettivamente non feci nessuno di quegli errori, ma in compenso riuscii a farne di nuovi! In estrema sintesi formai un team di superstar dello sviluppo software, un gruppo di persone divertenti con un incredibile talento tecnico e creai un ambiente nel quale lavorassero in piena armonia. Purtroppo non tenni conto del fatto che in una startup le cose difficilmente vanno come preventivato e che può accadere che le persone con grande talento tecnico tendano a cercare sempre nuove sfide nello sviluppo piuttosto che seguire una disciplina di azienda. In sostanza, dopo un po’ quello che si fa non è più “eccitante” perchè si deve passare dalla entusiasmante fase di progettazione e sviluppo a quella apparentemente meno stimolante e routinaria di saggio di mercato ed aggiustamento di quello che si è fatto. E’ il solito contrasto tra chi pensa che una buona idea tecnica emerga sempre per i soli propri meriti e chi invece crede sia la base sulla quale costruire, ma che la differenza la faccia l’execution. Laddove non si sia fatta molta attenzione alla costruzione della compagine sociale, questa situazione può portare di fatto ad una vero e proprio stallo dal quale è impossibile uscire.
5) Credi che rispetto a qualche anno fa, quando hai iniziato, qualcosa sia cambiato in Italia? Chi inizia oggi, è più o meno fortunato rispetto a prima?
Credo che in Italia siano in atto dei mutamenti che rendono complessivamente più facile fare una startup che in passato. Non parlo tanto di mutamenti legislativi, ambito nel quale purtroppo il panorama non è cambiato molto, quanto dei mutamenti a livello globale in termini economici, sociali e di accesso alle risorse. Ovviamente fare una startup in ambito web 2.0 è immensamente più facile che farne una in ambito, dico per dire, Waste Management, ma anche per startup in ambiti più complessi lo sviluppo del web da un lato e i riflessi delle nuove condizioni del mercato globale dall’altro hanno portato ad una facilità di accesso e condivisione delle informazioni e alla necessità di trovare impieghi efficienti del capitale che fino a qualche anno fa erano impensabili.
6) Se tu ne avessi il potere, cosa cambieresti in Italia per agevolare e stimolare i giovani imprenditori?
Cercherei di aprire il mercato per tutti, intervenendo sulle relazioni tra pubblico e privato. Anzi tutto eviterei gli interventi di salvataggio delle aziende decotte. Credo che sia socialmente saggio, e dunque necessario, dare un sostegno a chi rimane senza lavoro, ma le aziende vanno lasciate fallire. Se non si segue questa strada, il management non si rinnova e senza tale rinnovamento si creano dei circoli chiusi ed auto-referenziali di dirigenti incapaci il cui unico asset è quello relazionale (generando quello che alcuni chiamano il “capitalismo dei compari”). Poi abolirei del tutto i sostegni pubblici diretti alle aziende. Credo che l’enorme quantità di denaro che si riversa sulle aziende sotto forma di sostegni comunali, provinciali, regionali, statali, europei sia assolutamente perniciosa e vada combattuta in tutti i modi (in quanto genera quello che, parafrasando quanto sopra, chiamo il “socialismo dei compari”). Infine stimolerei la competizione attraverso misure fiscali, di riassetto della giustizia civile e di apertura del mercato finanziario. In un ambito a bassa competizione, è inevitabile che ci sia un’alta avversione al rischio (perché paga poco) e quindi alle innovazioni. E un mercato che non innova è un mercato chiuso alle idee e quindi, per chiudere il cerchio, basato solamente sulle relazioni.
7) Quale è il tuo punto di vista circa la Banca Nazionale dell’Innovazione, proposta da Gianluca Dettori?
Conosco poco il progetto per esprimere un parere puntuale. In termini generali, direi che i punti di maggiore attenzione nascono dal capire che i politici cercano consenso di natura elettorale. Tale ricerca del consenso è spesso a brevissimo termine. Un progetto che sia basato su risorse pubbliche, controllate quindi dalla politica, deve avere delle garanzie di lunga durata che impediscano le interferenze dovute al continuo alternarsi delle esigenze politiche, una governance cristallina, massima pubblicità di tutte le operazioni di investimento e dei risultati tangibili in termini di RoI ottenuti (per capirci, è la capacità delle aziende di creare ricchezza che crea occupazione e non viceversa).
8) Quali sono i consigli che ti senti di dare ai giovani che oggi decidono di fondare una startup?
Ne dò tre: due molto terra terra ed un altro, invece, con prosopopea didascalica :) Cominciamo dal primo: fate un lavoro durante il periodo degli studi. Meglio ancora se iniziate alle scuole superiori. Non parlo di lavori occasionali, parlo di spendere una parte importante del vostro tempo libero a lavorare: diciamo che dovreste essere almeno in grado di pagarvi completamente gli studi e tutte le spese voluttuarie (tasse, libri, spostamenti, cinema, cellulare, serate e così via). Passiamo al secondo: imparate l’arte del pitch, cioè a presentare le vostre idee in modo completo, accattivamente e in poco tempo. In ogni momento dovete essere in grado di dire tutto quello che è veramente importante in meno di un minuto (il cosidetto elevator pitch) e dovete essere in grado di recitare a memoria il vostro 7 minute pitch. Se usate le slide, cercate di imparare come si debbono strutturare. Se non ci riuscite, allora significa che l’idea non riuscirà mai ad interessare un investitore professionista e che, molto probabilmente, non ha molte chance di generare una startup valida in ambito internazionale. Infine il terzo: non siate superbi. Molte volte chi fa una startup innovativa è mosso da una sincera ambizione di cambiare il mondo in meglio. Questo idealismo però a volte si scontra con la dura realtà del mercato e degli uomini. Quando questo accade, la reazione del superbo è molto semplice: sulle prime si intestardisce nel suo approccio e poi, alla fine, rinuncia a lottare rifugiandosi nello sdegno auto-assolutorio. Ti faccio un esempio: supponi di sviluppare un prodotto eccezionale che risolve un problema marketing di grandi clienti. Provi a venderlo e improvvisamente ti accorgi che la cosa è più difficile di quanto pensassi: i grandi clienti hanno delle strutture complesse in cui ciascuna ha un qualche potere di veto sulle decisioni di un’altra; i fornitori già presenti fanno pressioni per non farti entrare; vieni avvicinato da presunti facilitatori che ti chiedono delle elevatissime commissioni per semplificare le procedure; l’ufficio acquisti ti dice che devi fare uno sconto del 70% perché altrimenti comprano un’altra soluzione che tu sai benissimo non c’entra nulla con quello che fai tu e così via. In questo caso, la reazione dettata dalla superbia è spesso quella di lasciare stare il cliente al suo destino, che immagini sempre a fosche tinte, e reiterare l’esperienza con un altro fino a quando, vinto dagli eventi, mollerai la tua startup rimettendoci soldi, tempo, entusiasmo, senza aver reso il mondo un posto migliore, ma con la auto-giustificazione che sei moralmente superiore agli altri. Io credo, invece, che questo non sia vero. E’ umano rinunciare a lottare per stanchezza, ma pur sempre una rinuncia è e, prima di farlo, bisognerebbe avere il coraggio di chiedersi se si è fatto tutto per riuscire. Nell’esempio fatto, ovviamente, l’errore dell’ipotetico startupper è quello di non capire che i grandi clienti hanno delle strutture e che proporre prodotti trasversali su queste strutture implica dover fornire a ciascuna dei chiari vantaggi competitivi e che dunque è su questo aspetto che bisogna lavorare.
9) Quale è la tua posizione rispetto alla questione Silicon Valley, credi che oggi sia un passo dovuto quello di provare ad aprire la propria startup lì?
Credo che chiunque voglia fare startup farebbe bene a passare un periodo di “condizionamento” in Silicon Valley. Lo credo perché è necessario avere un modello di riferimento di come dovrebbero funzionare le cose, per accumulare tanto entusiasmo, per iniziare a sviluppare una rete di rapporti di valore da utilizzare nella propria attività ed anche per capire meglio cosa significa lavorare in un ambito fortemente competitivo e, di conseguenza, se si ha la stoffa dello startupper. Non credo, invece, che sia sempre necessario aprire la propria startup nella Silicon Valley come recenti casi di successo (ad esempio Venere, Gioco Digitale e Neptuny) insegnano.
10) Secondo te, quali sono le tre principali caratteristiche che deve avere un giovane che decide di fondare una startup in Italia?
Grinta, non arroganza.
Determinazione, non testardaggine.
Capacità di sognare, non infantilismo.
11) Attualmente di cosa ti occupi e quali sono i tuoi prossimi progetti?
Al momento sto terminando le operazioni di vendita di ERIS4 e, tanto per dare un senso alle mie giornate, ho dato vita, insieme a due amici professori universitari, ad Innovation Lab. Si tratta di una iniziativa che si rivolge principalmente, seppur non esclusivamente, ai neo-laureati e ai giovani nella università italiane. Lo scopo è quello di favorire la nascita di una nuova cultura imprenditoriale che guardi al mercato e alla interdisciplinarietà come elementi chiave per la propria formazione. La visione del mercato è acquisita esponendo gli studenti per oltre il 75% del tempo ad incontri diretti e non mediati con investitori privati (angels e fondi di Venture Capital) e con imprenditori (possibilmente di prima generazione) che abbiano maturato significative esperienze sui mercati nazionali ed esteri (ce ne sono molti di più di quanto si sia portati a credere). La interdisciplinarietà nasce dal fatto che siamo convinti che le innovazioni che cambieranno il mercato nel prossimo futuro non possano venire che dalla capacità di abbattere le barriere che tradizionalmente separano ambiti come l’ingegneria, la biologia, il design, l’economia e così via. Durante i nostri corsi, che sono del tutto gratuiti e non prevedono la presenza di presunti consulenti a latere, gli studenti imparano quella che, a mio modo di vedere, è la cosa più importante che si possa insegnare ad uno startupper: fare un pitch. Vedi, io credo che nel pitch ci sia tutto quello che ti serve per capire il valore della tua idea e sono altresì convinto che sia il passo più importante e critico nel relazionarti con gli investitori, i partner e i clienti. Sintetizzando direi che il famigerato business plan è solamente un’estensione del pitch e non, come molti sono portati a pensare, che il pitch sia un’esposizione ridotta del business plan. Innovation Lab ha preso vita a febbraio 2010 e ritengo di poter dire che i risultati ottenuti sono stati apprezzati da tutti coloro che hanno partecipato inclusi i fondi di investimento privati operanti nel nostro Paese (DPixel, Innogest, 360 Capital Partners, Meta Group, Vertis, Quantica, IAG e così via). Alcuni ragazzi selezionati da Innovation Lab ora lavorano nella Silicon Valley, altri hanno vinto premi presitigiosi, altri ancora stanno negoziando le loro startup con i fondi e inoltre le aziende più innovative (quelle, per intenderci, che cercano talenti e non solo “laureati”) cominciano a chiedermi di assumere i ragazzi di Innovation Lab. Tutto questo è molto gratificante, ma non potrà continuare senza il sostegno e la simpatia di chi nel nostro Paese si batte per la creazione di un nuovo tessuto imprenditoriale, per cui vorrei chiudere con un appello ai tuoi lettori: se non conoscete Innovation Lab contattatemi e se dopo averlo conosciuto pensate che ne valga la pena, allora dateci una mano a far crescere l’immagine di questa iniziativa a livello nazionale e internazionale. Farlo è semplice: basta parlarne ed indicarla a tutti coloro che ne hanno bisogno. Se poi volete mettere a disposizione la vostra esperienza con i ragazzi, avrete, per quel che può valere, la mia sincera gratitudine così, come ben sai, l’hai tu che sei sempre stato disponibile non solo con Innovation Lab, ma con l’intero ecosistema della nuova imprenditoria italiana.
Grazie.
Grazie ad Augusto Coppola!
Stefano Passatordi